GRECIA, ITALIA, FINANZA E DEBITO PUBBLICO
Scritto il 02/05/10 alle 11:57:07 GMT pubblicato da Una_via_per_Oriana
Articoli e OpinioniAldilà delle scelte a lungo termine che si andranno a fare, che non potranno non portare ad interventi concreti, ho rivisto gli indici più significativi di solvibilità dei paesi europei in maggiore difficoltà
Giulio Tremonti era stato all’inizio l’unica fonte ufficiale governativa ad esternare  le sue preoccupazioni sull’andamento della nostra economia e sul fatto che, senza interventi di estrema significanza anche i meccanismi del sistema economico globale fossero a rischio.
Non capita a tutti di avere un ministro  capace di prospettare le difficoltà economiche che stavamo per affrontare suggerendo che di questi tempi sarebbe stato più opportuno leggere la Bibbia, anziché manuali di economia. Siamo stati in molti ad apprezzare la sua sincerità: alla fine però anche Tremonti è stato costretto a moderare le parole, per non andare in dissonanza coi suoi colleghi di governo, lasciando al primo ministro l’onere di dichiarazioni ottimistiche di limitata credibilità. Per nostra fortuna, il ministro dell’economia ha comunque sempre continuato a gestire con estrema parsimonia la spesa pubblica.
Hanno fatto scalpore il recente declassamento dei titoli greci a spazzatura, l’abbassamento del “rating” di Spagna e Portogallo, ed il fatto che Germania ed Europa si trovino ora di fronte alla scelta inevitabile di interventi concreti per il salvataggio della Grecia, e degli eventuali paesi che seguiranno: una scelta non necessariamente condivisa dalle varie popolazioni, ciascuna alle prese con i propri problemi quotidiani, fra le quali serpeggiano crescenti sentimenti antieuropeistici.  
Aldilà delle scelte a lungo termine che si andranno a fare, che non potranno non portare ad interventi concreti, ho rivisto gli indici più significativi di solvibilità dei paesi europei in maggiore difficoltà (dati Eurostat):
ITALIA
Deficit/Pil: 2,7 per cento (2008); 5,3 per cento (2009)
Debito/Pil: 106,1 per cento (2008); 115,8 per cento (2009)
PORTOGALLO
Deficit/Pil: 2,8 per cento (2008); 9,4 per cento (2009)
Debito/Pil: 66,3 per cento (2008); 76,8 per cento (2009)
IRLANDA
Deficit/Pil: 7,3 per cento (2008); 14,3 per cento (2009)
Debito/Pil: 43,9 per cento (2008); 64 per cento (2009)
GRECIA
Deficit/Pil: 7,7 per cento (2008); 13,6 per cento (2009)
Debito/Pil: 99,2 per cento (2008); 115,1 per cento (2009)
SPAGNA
Deficit/Pil:  4,1 per cento (2008); 11,2 per cento (2009)
Debito/Pil: 39,7 per cento (2008); 53,2 per cento (2009)
Senza particolari elaborazioni, Vi estendo le mie considerazioni. La situazione globalmente più compromessa è proprio quella dell’Italia, con un rapporto Debito Pubblico/ Prodotto Interno lordo del 115,8%.
Grazie alla parsimonia di Giulio Tremonti il peggioramento della nostra economia l’anno scorso è stato il più modesto, rappresentato da un rapporto Deficit/Pil di “solo” il 5,3 per cento, nettamente inferiore a quello delle altre nazioni sotto osservazione.
Questo dato è stato l’argomento più concreto “di vendita” sul quale si è appoggiata l’ultima asta di nostri Bot, andata con qualche difficoltà a buon fine.
Diventa infatti ogni giorno meno valida la tesi che il debito italiano non vada valutato per quanto appare perché è stato in buona parte sottoscritto da residenti, e sia quindi un fatto “interno”. Salvo interventi restrittivi e coercitivi  i capitali si possono infatti muovere da un investimento (e da un mercato) all’altro: è difficile pensare che di fronte ad un ulteriore deterioramento della nostra situazione per puro spirito patriottico tutti i nostri risparmiatori continuino a preferire investire nei nostri titoli di stato piuttosto che in quelli di altri paesi più solidi del nostro.

Altri dati “favorevoli” che hanno agevolato finora la vendita dei nostri titoli di debito pubblico (soprattutto all’estero) riguardano la disoccupazione (ufficialmente al 7,8%), e le previsioni di deficit per il 2011 (sotto il 3%): noi italiani sappiamo però bene come i nostri dati “ufficiali” di disoccupazione non riflettano i dati di un universo di “sottoccupazione” ove troppe partite IVA e troppi collaboratori a progetto lavorano per €3/ora, e di un Sud ove, vista la mancanza totale di riscontri, buona parte dei disoccupati non si iscrive neppure nelle liste degli uffici di collocamento. Non a caso il tasso italiano di inattività della forza lavoro è del 37,6%, il più alto d’Europa. Per quanto riguarda le previsioni di una contrazione del nostro Pil sotto il 3% per il 2011, dopo aver visto di quanto si sia poi rivelata grossolanamente ottimistica (a consuntivo) ogni previsione effettuata negli ultimi due anni, chi di noi vive di giorno in giorno sul fronte del lavoro la caduta di tutti i nostri settori produttivi si riserverà di crederci solo ad improbabile conferma consuntiva.

Gli ottimisti sostengono che se il nostro debito pubblico per le sue dimensioni è il più grande d’Europa, sommando l’indebitamento del debito pubblico a quello delle famiglie e delle imprese, e ponendo il debito totale così computato in relazione al Pil, non siamo più gli ultimi della classe: il debito totale del Portogallo è al 236% del Pil, la Grecia al 195%, e l’Italia al 205%.

La lettura dei dati è assolutamente sconfortante: ci porta a chiederci come abbiamo potuto gestire negli ultimi mesi una situazione debitoria più preoccupante di quella degli altri paesi fin qui menzionati, senza veder crollare la fiducia nella nostra solvibilità.
Per la Grecia la risposta è facile: che credito e che fiducia si può dare ad un paese che pare abbia barato sui suoi conti e mentito ai suoi partners? Ma se ci confrontiamo con Portogallo, Irlanda e Spagna (classificati meno a rischio di noi), la risposta è più difficile, anche perché si tratta di paesi con un rapporto debito/Pil di circa la metà del nostro.
Mi accorgo di come la risposta esca dalla logica matematica e rasenti l’intangibile: ai nostri enormi deficit pubblici tutti si sono abituati da tempo, rassegnandosi al fatto che, in qualche modo, li abbiamo sempre gestiti riuscendo a tirare avanti: noi siamo nel contempo diventati maestri nella gestione di situazioni estreme, e sappiamo come presentare al meglio al mondo esterno anche dati sconfortanti.  Questo governo aveva già ereditato da quello precedente un’economia col freno a mano “tirato” sugli aumenti della spesa pubblica, e non ha avuto tempo e modo di cambiarne sostanzialmente l’indirizzo. Al precipitare della crisi finanziaria internazionale a Tremonti è bastato stringere ancor di più i freni, anche se questo significava rinunciare ad effettuare interventi significativi contro la recessione, che sarebbero comunque risultati di scarsa efficacia.
Altri paesi senza il nostro “volano” industriale e produttivo (ora ormai quasi fermo) erano però più protesi  del nostro in programmi di crescita, che comportavano un sensibile aumento di spesa pubblica, sia per saziare l’appetito dei burocrati che per infrastrutture. Si sono così trovati più spiazzati dalla crisi: per questo il loro indice deficit/Pil, fotografia dell’andamento dell’economia in un dato periodo, è molto peggiore del nostro.
A questo punto…devo dire che anche l’apparente inguaribile ottimismo del nostro Premier prende le tinte di una parte “dovuta” : io che ero arrivato ad oltraggiarlo per il suo minimizzare problemi gravi offendendo –secondo me- l’intelligenza di troppi italiani, ho finalmente compreso che la sceneggiata non era tanto per il  nostro teatrino della politica, bensì una parte ben recitata per scenari più vasti.

Mentre da più parti continua la lapidazione della politica economica greca e si criticano le scelte improvvide dei paesi in maggior difficoltà, nessuno in Italia o all’estero, ad eccezione di partiti minoritari, ha avuto il coraggio di affrontare la ragione principale di questo indebitamento pubblico, che sta portando un sistema ai suoi estremi e diversi paesi alla rovina: il nodo della proprietà della moneta alla sua emissione. La spiegazione che il debito pubblico dipende solo da spese statali eccessive o dissennate è parziale e fuorviante: come esempio dobbiamo chiederci come sia possibile che il rapporto fra debito pubblico e Pil del nostro paese fosse del 30% nel 1941, e fosse arrivato solo al 32% nel 1951, dopo i costi di una guerra persa e quelli enormi della prima ricostruzione, per scendere al 20% nel 1971, e da allora, dopo soli 23 anni, nel 1994 fosse già al 120%. Questo enorme incremento si è verificato in un periodo senza guerre o calamità naturali estreme, e la crescente corruzione della nostra classe politica, poi abilmente addotta a scusante, non giustifica che in piccola parte questo fenomeno.

La ragione principale va ricercata nella capacità del mondo finanziario e bancario di travolgere negli anni ‘70 una declinante classe politica, e di cambiare i meccanismi di emissione della cartamoneta: se fino ad un certo punto lo Stato la aveva emessa direttamente, quindi senza indebitarsi, per far fronte ai suoi fabbisogni, da quel punto in poi iniziò ad essere emessa da un sistema bancario che progressivamente si era arrogato la proprietà del denaro alla sua emissione, sottraendola allo Stato ed ai suoi cittadini.  Le ultime banconote emesse dallo Stato italiano furono le 500 lire del 1975. In altri termini, quando gli Stati occidentali abbisognano oggi di denaro, invece di chiederne alle banche centrali la mera emissione, pagandone solo le spese di stampa, emettono debito pubblico (in Italia Bot o altro), per un importo pari all’intero valore di emissione valutaria più l'interesse per il periodo di scadenza del debito: poi cedono questi titoli allo sconto alla banca centrale. L’assurdo che ogni paese debba indebitarsi per ottenere l’emissione del “suo” denaro è stato la maggiore concausa dell’enorme indebitamento degli stati moderni, a partire dal nostro.
Grazie alla commistione di interessi fra l’alta finanza, la politica e l’informazione, anche la maggior parte degli elettori dei sistemi “democratici” moderni ignora che la moneta non appartiene più agli stati che ne chiedono l'emissione, ma a banche centrali pubbliche di nome, private di fatto, che indebitamente se ne sono arrogate la proprietà.

Senza voler condonare gli errori commessi dal governo greco, nonché quelli eventuali di tutti gli altri paesi ora in difficoltà, l’unico modo di uscire definitivamente da questa spirale di debito pubblico innestata ovunque dal sistema finanziario internazionale, è di “voltare pagina”, restituendo ai popoli ed agli stati  che li rappresentano quella sovranità monetaria cui non avevano mai scientemente rinunciato, ma che per debolezza, promiscuità ed ignoranza della politica era stata loro sottratta.
Voltata pagina, per ricostruire un sistema economico ormai alle corde nella maggior parte dei paesi occidentali si dovranno anzitutto riporre le basi di un sistema finanziario e bancario etico, supporto indispensabile allo sviluppo organizzato di qualunque attività produttiva e di servizi.

di Pier Luigi Priori, consulente

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