ISLAM LATO A: INVASIONE, IMMIGRAZIONE, INCLUSIONE, INTEGRAZIONE
Scritto il 13/10/10 alle 21:50:35 GMT pubblicato da Armando_Manocchia
Armando ManocchiaOCCIDENTE LATO B: INFEDELI, IPOCRITI, IMBECILLLI, IDIOTI

Anche il nostro Presidente della Repubblica – non si capisce a quale titolo -  ebbe modo di dire la sua a proposito del successo di Wilders in Olanda dipingendolo come Partito di estrema destra razzista e xenofobo.

Disse testualmente: "E' un segno preoccupante". Sono tendenze fuori dalla storia e fuori dalla realtà. L'ipotesi di tornare al passato è una pericolosissima e anacronistica illusione e i cittadini europei non possono aspettarsi niente di buono da un ristretto approccio nazionale". I commenti al commento sono superflui….

La vicenda che solo ieri ha visto scagionare Geert Wilders, il leader del Partito della Libertà olandese, dall’accusa di ''incitazione all'odio razziale e discriminazione dei musulmani'' per aver detto delle gravissime verità e di aver paragonato il corano al Mein Kampf di Hitler, tra l’altro dopo che lo aveva già fatto sia  Oriana Fallaci che Wiston Churcill e milioni di altre persone come noi tutti i giorni in tutto il mondo - e per il quale, oltre ad aver provocato reazioni inconcepibili da parte degli islamicamente corretti e i guerrafondai pacifinti, difensori degli extraumanitari, hanno rivelato una fortissima  pressione con cui la cultura della cosiddetta jihad, fa di tutto per imporre all’Europa una  visione islamista della storia, della civiltà e della politica.

Il primo tempo lo abbiamo vinto, il secondo, si disputerà venerdì prossimo 15 ottobre, quando Wilders sarà di nuovo in Tribunale (olandese, non islamico) per essere giudicato per aver avuto la banalissima idea di produrre un cortometraggio “Fitna”, dove l’unica colpa che ha, è quella che in Italia si chiamerebbe “dossier aggio”, l’aver messo in fila una dietro l’altra, articoli, foto, simboli, immagini, video e discorsi raccolti dai media.

Per nostra fortuna (e quella di Wilders) ''Paragonare il Corano e l'Islam al Mein Kampf, al nazionalismo socialista, al fascismo e al comunismo puo' senza dubbio essere offensivo, ma non e' un oltraggio punibile dall'articolo 137c del codice penale'', ha dichiarato il procuratore Paul Velleman. Signori credo che molti di voi non sanno e chi di voi lo sa è bene che non lo dimentichi, che dagli anni 70’ l’Europa e  i paesi della Lega  Araba attraverso il DEA, il Dialogo Euro Arabo, pianificano la fusione delle due sponde del Mediterraneo.  Questo progetto -  vergognosamente lodato come nostra fonte di salvezza economica dal Presidente della Camera, alla Festa di quale Libertà? Tenutasi quest’autunno a Milano -  ha portato alla  graduale ed inesorabile trasformazione del continente europeo in un  ibrido asservito alle esigenze politiche e agli standard culturali e religiosi del mondo islamico.

Il declino dell’Europa ebbe inizio con la crisi petrolifera del 1973  per la colpevole ambizione dei francesi, i quali in seguito al loro antiamericanismo, progettarono di costruire un asse geopolitico e ideologico alternativo appunto a quello americano e atlantico.  
In pochissimo tempo, l’Europa ha sacrificato la  sua indipendenza politica, in quanto ogni Paese aderente fa quello che vuole, nessun Paese  fa veramente quello che deve o dovrebbe, ma tutti e 27,  partecipano alla spartizione di quella che si può definire una torta alla panna, senza base, senza fondamenta, senza i suoi valori culturali e  spirituali, che sono, checché ne diciate, le sue radici giudaico-cristiane, le fondamenta della nostra civiltà, radici purtroppo ripudiate dopo oltre 2000 anni e  rinnegate di proposito, per arruffianarsi e genuflettersi verso  i Califfi dei paesi islamici, in cambio solo, di false e ipocrite promesse nonché di garanzie illusorie, contro il  terrorismo oltre a vantaggi economici che alla lunga si dimostreranno purtroppo non solo svantaggi.

Il saldo è negativo, il bilancio è drammatico. Questa politica, questa scelta suicida da parte dell’Europa di ripudiare le proprie radici giudaico-cristiane, ha condotto, conduce e condurrà sempre più  alla mancata integrazione degli immigrati musulmani, se non altro  per effetto di una dichiarata arrendevolezza e consentirà il proliferare di cellule terroristiche islamiche in tutto il continente, con il  conseguente stravolgimento della sua identità culturale, religiosa ed  etica.
 
E’ arrivato il momento di riappropriarsi dell’autentica eredità spirituale, di quei sacri valori di umanità  che l’Europa, anche nei momenti più bui della sua storia, ha sempre  cercato di preservare.

Al centro della civiltà islamica fin dalle origini, la jihad è una dottrina elaborata  secondo un preciso schema legale e religioso da giuristi e teologi  musulmani che distingue il territorio  dell’islam, in cui esso regna, dal territorio della guerra popolato dagli infedeli, nel quale la guerra è  obbligatoria finché essi rifiuteranno di riconoscere la sovranità  islamica.

Il terzo territorio, sempre degli infedeli, i quali ottengono, in cambio del pagamento di tributi, la provvisoria cessazione delle ostilità, impegnandosi inoltre a non ostacolare l’espansione dell’islām.
I nostri politici alle prese con la crisi economica, con la disoccupazione ed  il precariato, ascoltano sbalorditi i pezzi grossi dell’Unione Europea, responsabili delle loro sventure, invocare, un ulteriore aumento delle quote di immigrati dimenticando di informarne i propri elettori di questo gravissimo problema, i quali non provano né entusiasmo né serenità, di fronte ai quotidiani e raccapriccianti episodi di violenza a cui purtroppo si stanno abituando, insieme al degrado e all’insicurezza. Se ve ne fosse ancora la necessità, occorre ancora una volta ricordare che non tutti i musulmani sono terroristi, ma niente è più vero che, tutti i terroristi sono musulmani.  Oltre il 30% degli ospiti nelle carceri italiane, sono immigrati, di cui oltre il 60% sono islamici, il cui costo di soggiorno di questi “poverini” è di 800 euro al dì cadauno per lo Stato italiano.

Anche se è vero che ci sono dei musulmani che condannano il terrorismo, come nel recente attentato di Munbay, la maggioranza dei musulmani si nutre delle concezioni  dell’islam più radicale, mentre altri fingono di  ignorarle. Ma per quanti ne costituiscano il bersaglio, sarebbe un suicidio negare la realtà di tale minaccia e l’indottrinamento delle popolazioni musulmane da parte dei loro leader religiosi che rappresentano i 56 stati islamici e l’ANP, tutti rappresentati in seno  all’OCI (Organizzazione della Conferenza Islamica).
 A testimonianza, vi sono le  elezioni palestinesi del gennaio  2006,  le quali hanno dimostrato che la  democrazia si riveste dei colori islamici e guerrafondaisti non solo a  Gaza.

L’ossequiosità dell’Europa e la sua politica tesa ad  indebolire Israele, a screditare gli USA  ed occultare le persecuzioni dei cristiani in terra islamica non  contribuiscono certo ad arginare quest’odio, che ha le sue radici  nella loro storia e nella loro tradizione.
La jihad, infatti, è il cuore della storia e della civiltà  islamica e le prescrizioni giuridiche della stessa,  conoscono una nuova fioritura sotto l’impulso di guide come lo  sceicco Yusuf ’al-Qaradhawi, leader spirituale dei Fratelli  Musulmani e del Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca, o lo  sceicco Muhammad Sayyid ’Al-Tantawi, grande imam-rettore dell’Università  di Al-Azhar del Il Cairo in Egitto.

 Questi giuristi sono convinti e purtroppo convincono i musulmani, che la guerra dichiarata a Saddam  Hussein nel 2003 costituisca un attacco degli infedeli alla totalità della comunità islamica, e ricordano che le leggi della jihad  prescrivono, in tali situazioni, il reclutamento di tutti i  musulmani. Inoltre, il Centro di Ricerca Islamica di Al-Azhar ha pubblicato un comunicato, approvato dal suo imam-rettore, Al-Tantawi, in  cui si sottolinea che la jihad diviene un obbligo personale per ogni  musulmano non appena una terra islamica viene attaccata, “altrimenti la nostra nazione musulmana subirà una nuova crociata  scatenata contro la sua terra, l’onore, la fede e la patria” e  insegna, che ai  musulmani è lecito combattere anche in altri paesi contro i non  musulmani che disapprovano o disprezzano la religione islamica o i  suoi seguaci.

Quest’appello alla jihad è venuto anche dal gran muftì di Siria, il quale ha invitato i musulmani, ovunque essi siano, a usare  tutti i mezzi possibili per ostacolare questa aggressione, comprese le azioni suicide contro gli invasori americani, britannici e  sionisti.

Ovunque l’ideologia della jihad ed i suoi precetti non  siano stati respinti, i musulmani impostano le proprie relazioni con  i non musulmani alla luce del quadro concettuale della jihad e nonostante i numerosi appelli alla jihad lanciati dalle capitali islamiche e, talora più discretamente, da quelle europee,  pochi occidentali ne realizzano la portata. Occorre quindi dire, che gli analisti ingannano deliberatamente l’opinione pubblica, adducendo il pretesto delle Crociate per porre su di un piano di parità morale i musulmani e il cristianesimo e placare i legittimi timori degli europei.
Fingono di  ignorare che la jihad, in quanto ideologia e prassi, è esistita  ininterrottamente per quattro secoli già prima delle Crociate, in  Asia, Africa ed anche in Europa.

 Il cosiddetto DEA, Dialogo Euro Arabo, che sarebbe meglio chiamarlo Accettazione della Dhimmitudine Europea, impose la soluzione  del conflitto israelo-palestinese come condizione imprescindibile per  un’autentica cooperazione euro-araba e condannò ripetutamente Israele. Raccomandò inoltre il sorgere di un movimento di opinione paneuropeo favorevole agli arabi, e invocò speciali condizioni per l’accoglienza degli immigrati musulmani in Europa, auspicando che i  governi europei facilitassero la partecipazione dei lavoratori  arabi e delle loro famiglie alla vita culturale e religiosa  araba, (se notate, si parlava sempre e solo di Arabo/a, mai di islam). Insistettero molto sulla «cooperazione negli ambiti della cultura e  della civiltà», incoraggiando in particolare lo studio dell’arabo e delle lingue europee e la creazione di istituzioni culturali  euro-arabe.

«Eurabia» non è solo il nome coniato  Bat Ye’or per definire l’Europa e che da il titolo al suo bellissimo saggio Eurabia, tantomeno la parola che Oriana ha preso in prestito per meglio descrivere l’Europa di oggi, ma è in realtà, il titolo di un periodico pubblicato a Parigi  in quegli anni, il quale diffuse tra l’opinione pubblica europea la propaganda palestinese, in linea con le decisioni prese alla  Conferenza de Il Cairo del 1969 che sostenute da potenti lobby  politiche ed economiche, inaugurarono la politica del riavvicinamento euro-arabo.

Nel numero 2  del luglio 1975, «Eurabia» riportava le risoluzioni  
approvate all’unanimità dall’assemblea generale  dell’APCEA (Associazione Parlamentare per la Cooperazione Euro-Araba, Strasburgo 7-8 giugno 1975). Associazione creata appositamente, che riuniva oltre  200 Parlamentari dei 9 (allora) Stati dell’Europa occidentale, in  rappresentanza di tutti i partiti dell’arco costituzionale dei  diversi Paesi . Ciò significa che il consenso sul programma di intesa euro-araba era trasversale all’intero scacchiere politico europeo e tale e quale è tuttora.

«Eurabia» il periodico, riprendeva le tesi arabe, e «la necessità di un’intesa politica tra l’Europa e il mondo arabo come base per gli accordi economici» e deplorava che essa fosse stata trascurata fino ad allora ed insisteva poi, sul dovere da parte dell’Europa, di «comprendere gli  interessi politici ed economici del mondo arabo».
Il DEA, il Dialogo Euro- Arabo doveva esprimere «una volontà politica comune» e la dimensione  politica pregiudiziale a tutti gli accordi economici con i paesi  della Lega Araba esigeva la nascita in Europa «di un movimento  d’opinione» favorevole agli arabi, il loro tenore era: ”Se vogliono realmente cooperare con il mondo arabo, i governi europei  e i loro leader politici hanno il dovere di protestare contro la  campagna denigratoria degli arabi in atto nei loro organi di  informazione. Devono riaffermare la loro fiducia nell’amicizia  euro-araba e il loro rispetto per il millenario contributo dato dagli  arabi alla civilizzazione universale”.

Le esigenze politiche arabe rispetto alle condizioni del Dialogo  non si limitavano quindi al solo Israele: riguardavano anche  l’Europa.
Il delegato Belga Declerq, asseriva che la «cooperazione economica euro-araba doveva essere il frutto di una volontà politica. Doveva quindi  riconoscere gli aspetti politici di tale cooperazione».
In altri  termini, gli scambi economici erano subordinati al sostegno della CEE alla guerra araba contro Israele.

A proposito dell’Europa, il delegato belga Declerq, auspicava una cooperazione economica attuata mettendo  in comune le risorse arabe di manodopera e di materie prime –  petrolio – con le tecnologie europee. Secondo Declerq, il reimpiego dei petrodollari doveva favorire  l’interdipendenza tra l’Europa occidentale e i paesi arabi, così  da «arrivare gradualmente a un’integrazione economica il più  completa possibile».

Ma l’integrazione economica euro-araba sarebbe  rimasta un fatto teorico se non fosse stata attuata la parte politica  dell’accordo, ossia il sostegno europeo alla lotta araba contro  Israele. «Quindi – ribadì Declerq – occorre che  alla base dei progetti di collaborazione vi sia una reale volontà  politica, che deve manifestarsi a tre livelli: a livello nazionale, a  livello europeo, a livello mondiale».
In questa prospettiva, di Declerq, la  cooperazione e la solidarietà euro-arabe dovevano realizzarsi tramite  le organizzazioni e le conferenze internazionali, esattamente come è sempre avvenuto. Egli auspicava lo  svolgimento di incontri preparatori comuni e convegni euro-arabi, esattamente come avviene, che  dovevano «moltiplicarsi a ogni livello – economico, monetario,  commerciale ecc. – così da arrivare a posizioni comuni».

 Le sue proposte furono inserite in forma integrale nelle  risoluzioni dell’APCEA, l’Associazione Parlamentare per la Cooperazione Euro Araba, riunita a Strasburgo il 7-8 giugno 1975, e  la sezione politica delle  risoluzioni investiva tre ambiti:
la politica europea nei confronti  di Israele,
la creazione di un movimento d’opinione paneuropeo e  mondiale favorevole agli arabi,
l’accoglienza in Europa degli  immigrati musulmani.
A proposito di Israele l’associazione si  allineava alle posizioni arabe e pretendeva il ritiro di Israele alle  linee d’armistizio del 1949, in aperto contrasto con la risoluzione 242 dell’ONU.

L’Associazione esigeva inoltre dai governi europei  il riconoscimento dell’OLP come unico rappresentante degli arabi  palestinesi, come poi in effetti è avvenuto, punto fondamentale che l’Europa doveva imporre nelle  iniziative internazionali di sua competenza previste dalla politica  comune euro-araba. La CEE doveva costringere Israele a riconoscere i diritti della nazione palestinese e l’esistenza di uno stato  
palestinese su tutta la riva ovest del Giordano e a Gaza.
A livello europeo, l’APCEA chiedeva un’informazione favorevole alla causa araba, esattamente come è avvenuto e speciali condizioni per gli immigrati ed una modifica delle  disposizioni legali relative alla libera circolazione, e il rispetto  dei diritti fondamentali dei lavoratori immigrati in Europa: questi diritti devono essere equiparati a quelli dei cittadini europei, esattamente come è avvenuto. L’APCEA considerava la soluzione politica del conflitto israelo-arabo una necessità imprescindibile per la nascita di un’autentica  cooperazione euro-araba. Nello stesso paragrafo, l’APCEA esprimeva la convinzione  che «l’armonioso sviluppo della cooperazione tra l’Europa occidentale e la nazione araba» avrebbe tratto giovamento dalla  libera circolazione delle idee e delle persone.
La risoluzione economica condannava quelle scelte politiche che avevano: arrecato danno alla cooperazione euro-araba, quali la creazione  dell’AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia) e la firma  di un accordo tra la CEE e Israele prima della conclusione dei  negoziati tra la CEE e i paesi arabi.

A questo proposito,  l’APCEA chiese formalmente che la cooperazione economica tra  la CEE e Israele non si estendesse ai territori occupati.
Le risoluzioni votate dall’APCEA a Strasburgo riprendevano quelle approvate dalla conferenza preparatoria, tenutasi a Damasco qualche mese prima (14-17 settembre 1974).
Sul piano culturale, l’APCEA prendeva atto del debito dell’Europa nei confronti  dell’islam e del suo patrimonio etico, «riconoscendo il contributo storico della cultura araba allo sviluppo europeo, e sottolineando  l’apporto che i paesi europei possono ancora attendersi dalla cultura araba, in particolare nell’ambito dei valori umani», e invocava lo sviluppo dell’insegnamento della lingua e della cultura  
araba in Europa, «auspicando che i governi europei concedano ai paesi  arabi larghi mezzi per favorire la partecipazione dei lavoratori  
immigrati e delle loro famiglie alla vita culturale e religiosa araba».

L’APCEA faceva appello alla stampa, ai media, ai gruppi di  collaborazione ed al turismo per migliorare l’immagine del mondo  arabo agli occhi dell’opinione pubblica europea, chiedendo ai governi dei nove di affrontare con spirito costruttivo  gli aspetti culturali del Dialogo Euro-Arabo e di accordare una più  accentuata priorità alla diffusione della cultura araba in Europa; chiedendo ai governi arabi di riconoscere le implicazioni politiche  di una cooperazione attiva con l’Europa sul piano culturale; invitando i gruppi nazionali dell’APCEA a intensificare in  ogni paese CEE gli sforzi necessari per realizzare gli  obiettivi formulati a Damasco e  a Strasburgo e pregandoli di  comunicare al Segretariato dell’APCEA i risultati ottenuti. La risoluzione si concluse con una condanna e un’accusa nei  confronti di Israele:
Pur riconoscendo il diritto all’esistenza dello stato di Israele, condanna la volontà sionista di sostituire, nel territorio  palestinese, la cultura ebraica a quella araba, per privare il popolo  palestinese della sua identità nazionale; considerando che, con gli scavi effettuati nei luoghi santi  dell’islām (il Monte del Tempio) – zona occupata da Gerusalemme  – malgrado gli avvertimenti dell’UNESCO, Israele ha commesso una violazione del diritto internazionale; considerando che tali scavi non potevano non comportare l’inevitabile distruzione di alcune testimonianze della cultura e  della storia araba; si rammarica che la decisione dell’UNESCO di non ammettere Israele nel suo Ufficio Regionale sia stata talora gestita con grande mancanza di obiettività.

 Nello stesso numero di «Eurabia», due economisti cristiani palestinesi, Bichara e Naim Khader, sottolineano che la cooperazione  
euro-araba riguardava ben 29 paesi, (attenzione 29 Paesi, quanti sono adesso? 27 i prossimi sono Turchia ed Egitto) e che il suo successo esige identità  di vedute i tutti i campi.
Deplorando le diverse linee politiche adottate da alcuni paesi nei confronti del Medio Oriente, gli autori  dimostrano che gli interessi dell’Europa e del mondo arabo sono in  contrasto con quelli degli Stati Uniti, e che il Dialogo Euro-Arabo  avrà successo solo se l’Europa adotterà una politica del tutto  indipendente da quella americana. Per loro, questo implica che le  personalità impegnate nel rafforzamento delle relazioni euro-arabe  all’interno dei diversi organi del DEA non debbano essere né  filoamericane, né filoisraeliane. Il DEA è il frutto di una volontà politica comune che  si è manifestata ai massimi livelli e che ha per oggetto  l’instaurazione di speciali relazioni tra i due gruppi.

Le due parti  rammentano che il dialogo ha origine negli scambi intercorsi tra loro  alla fine del 1973, comprendenti in particolare la dichiarazione  fatta dai nove stati membri della Comunità Europea il 6 novembre 1973  a proposito della questione mediorientale, ma anche la dichiarazione rivolta ai paesi dell’Europa occidentale dalla VI Conferenza al vertice dei paesi arabi, svoltasi ad Algeri il 28 novembre del 1973.

È chiaro quindi che l’adesione della CEE alla politica araba nei  confronti di Israele ha costituito fin dall’inizio la base del  DEA, in conformità alla Dichiarazione di Algeri.
In campo economico il DEA aveva l’obiettivo «di creare le premesse fondamentali per lo sviluppo della totalità del mondo arabo,  e di ridurre il gap tecnologico che separa i paesi arabi da quelli  europei».
Tra gli innumerevoli ambiti di cooperazione indicati nel memorandum, vengono citati le tecnologie nucleari, la finanza, le banche, la gestione dei capitali, la ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico, la formazione professionale e tecnica, l’impiego dell’energia nucleare, le infrastrutture necessarie per i trasporti, il genio civile, l’urbanizzazione, la sanità, l’istruzione, le telecomunicazioni, lo sviluppo degli agglomerati urbani, delle strutture collettive e del turismo.
L’addestramento del personale  specializzato per la gestione dei numerosi progetti sarebbe stato  realizzato «o inviando équipe di esperti europei nei paesi arabi,  per formarvi la manodopera locale, o inserendo tale manodopera nelle  strutture dei paesi della CEE.
 
Erano inoltre  previsti «un’efficace cooperazione e scambi di informazioni tra  università arabe ed europee» in merito ai diversi metodi di ricerca,  programmi e progetti.
«Cooperazione nel campo della Cultura e  della Civiltà» specifica che il DEA doveva «avvicinare le due  civiltà che hanno ampiamente contribuito ad arricchire il patrimonio  culturale dell’umanità».
La cooperazione in tali ambiti avrebbe  incluso «l’istruzione, le arti, le scienze e l’informazione»,  per consolidare e approfondire le basi della comprensione culturale e dei punti di contatto intellettuali tra i due popoli.
A tale scopo furono previste diverse misure, tra cui la  creazione di un’istituzione culturale comune euro-araba, scambi di  esperti, l’instaurazione di rapporti nel campo dell’istruzione e  del turismo, l’incentivo a studiare le lingue europee e quella  araba.
I problemi dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie,  infine, dovevano essere risolti con l’uguaglianza di trattamento in  materia di impiego, condizioni di vita e lavoro, regimi di previdenza  sociale.

La crescita del terrorismo palestinese negli anni 1970-80 e il lassismo delle polizie europee negli anni in cui fu ideata ed elaborata questa politica, rivelano chiaramente che essa fu in gran parte motivata dalla paura di un mondo arabo ostile. Ma questa strategia compiacente si univa anche al desiderio di  un’interdipendenza economica e politica euroaraba, libera da ogni  
interferenza americana.
Dopo oltre tre decenni, qual è stato l’impatto sul continente europeo di questa strategia che cementa in un unico blocco, legato al mondo arabo, settori in origine indipendenti quali l’economia, l’immigrazione, la politica e la cultura? Il DEA non ha forse  favorito la realizzazione nei paesi della CEE dei piani per l’immigrazione musulmana e lo sviluppo della cultura araba in Europa  elaborati in quel periodo dagli organi direttivi della Lega Islamica  Mondiale.


Di fatto, il destino dell’Europa e la sua evoluzione  nel lungo periodo si sono giocati in quegli anni, dando luogo a  quegli sviluppi tortuosi e irreversibili al compimento dei quali oggi  assistiamo.
A partire dagli anni ’70, le politiche europee sull’immigrazione furono assoggettate all’obiettivo del DEA, imposto  dagli stati arabi e dalle loro lobby in Europa: fondere le due sponde  del Mediterraneo in una civiltà comune.
Ecco perché il DEA progettò  l’inserimento massiccio e omogeneo di interi gruppi di immigrati  provenienti dal Sud nel tessuto laico europeo. Questi immigrati, che  nel giro di oltre tre decenni sono diventati oltre sessanta milioni, anche se i dati ufficiali parlano di neanche 20 milioni, non venivano per  integrarsi. In quest’ottica il DEA mise l’accento sulla diffusione  più ampia possibile in Europa, sotto l’egida di istituzioni e  centri culturali euro-arabi, della lingua e della cultura araba, e  sull’insegnamento dell’arabo ai figli degli immigrati.

Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la penetrazione culturale islamica in Europa non è dovuta solo all’immigrazione di milioni di musulmani, provenienti dall’Africa, Medio Oriente ed Asia, che portano con sé la propria cultura sotto lo stendardo del multiculturalismo, ma è anche  l’espressione di una deliberata scelta della CEE.

L’esortazione a  salvaguardare le tradizioni degli immigrati veniva da due fonti, la  prima delle quali era costituita dagli interessi dei leader politici  e religiosi musulmani, ansiosi di mantenere il controllo sui loro connazionali come strumenti di pressione politica e al tempo stesso  di diffusione della da‘wah nei paesi d’accoglienza. Questa concezione ha le sue radici nell’islam tradizionale: da sempre la compenetrazione sociale tra musulmani e non musulmani, e l’adozione  da parte dei primi di leggi e usanze straniere, è, se non addirittura bandita, quantomeno rigorosamente vietata dalla shari’a, ed ha  generato una capillare giurisdizione, in vigore in tutto il dar al- islam sin dagli inizi della colonizzazione islamica.

Come emerge  dalle discussioni del vertice di Lahore e da numerosi altri testi al  riguardo, i capi di stato musulmani e i loro leader spirituali  guardavano agli immigrati come ad un contingente islamico in  Europa, da consolidare e inquadrare nelle reti dei centri culturali  arabi per impedire che si diluisse nella società lassista e dissoluta  degli infedeli, esattamente il contrario del multiculturalismo e dell’integrazione.
Furono gli accordi del DEA, ossia i compromessi tra i governi europei, coordinati dalla Commissione della CEE, a costituire il  secondo quadro di riferimento di una migrazione di massa intesa a ricreare in Europa le proprie strutture sociali e religiose,  tradizionalmente ostili alle altre culture sul  tema.
 I mezzi e le forme di cooperazione per la diffusione in Europa  
della lingua araba e della sua civiltà letteraria un invito a istituire nelle capitali europee, d’intesa con i paesi islamici, centri per la diffusione della lingua e della cultura araba.  
Una di esse  prevedeva l’inserimento negli istituti e nelle università europee  di professori arabi specializzati nell’insegnamento agli europei. Questa misura si spiega con il divieto per i non musulmani di  insegnare l’islām, ancor oggi in vigore nei paesi musulmani.

 
Un’altra implicava il «coordinamento degli sforzi fatti dai paesi arabi per diffondere la lingua e la cultura araba in Europa e per trovare forme adeguate di cooperazione tra le istituzioni arabe
operanti in questo settore».
 I partecipanti chiesero la creazione di centri culturali  euro-arabi gemellati nelle capitali europee, finalizzati alla  diffusione della lingua e della cultura araba.  Chiesero il sostegno delle istituzioni europee, di tipo universitario  e non, «interessate all’insegnamento della lingua araba e alla  diffusione della cultura araba e islamica».
Sollecitarono l’aiuto  dei governi per «progetti di cooperazione culturale tra istituzioni  europee e arabe, in materia di ricerca linguistica e insegnamento  della lingua araba agli europei». L’esortazione a  nominare, nelle istituzioni e nelle università europee, professori  arabi che insegnino la loro lingua agli europei è ripetuta nello  stesso documento e, praticamente, in tutti quelli degli anni  successivi. Quest’insistenza, più volte ribadita, sulla necessità  di affidare agli arabi questo insegnamento, mira a tenere  l’interpretazione islamica della civiltà araba al riparo da ogni  intrusione o critica da parte dei kuffar, e a custodirne l’efficacia ai fini della da‘wah.
 
Questa politica ha di fatto istituito il  controllo dei musulmani sull’insegnamento della storia, ma anche di  altre discipline ed ha determinato l’orientamento filopalestinese e  antioccidentale delle università europee, introducendovi una prospettiva islamica estranea alla loro cultura. È strano, che i  docenti universitari europei, la cui professione consiste appunto  nell’insegnamento della lingua e della civiltà islamica, abbiano  deliberatamente accettato di essere definiti incompetenti nel proprio  ambito professionale, e si siano volontariamente fatti da parte per  permettere a colleghi stranieri di insegnare le loro stesse  discipline nelle università e nelle istituzioni europee. Altra raccomandazione prevede che l’insegnamento dell’arabo  sia collegato alla cultura arabo-islamica e alle tematiche arabe  attuali e  «la necessità di  cooperazione tra specialisti europei e arabi per presentare in modo  oggettivo agli studenti e al pubblico europeo colto la civiltà arabo- islamica e le problematiche arabe contemporanee che potrebbero forse  attirarli verso gli studi arabi».
Per realizzare una perfetta armonia  tra le università arabe ed europee, i partecipanti proposero stage  per i professori europei nei paesi arabi.
 
Le risoluzioni successive  definiscono le forme di cooperazione tra le università arabe ed  europee e i loro rispettivi esponenti, ma anche di gestione dei fondi  necessari a questo progetto di arabizzazione dell’insegnamento  all’interno della CEE.
L’ultima mozione, «la nascita di un comitato  permanente di esperti arabi ed europei, incaricati di controllare  l’attuazione delle decisioni relative alla diffusione della lingua e  della cultura araba in Europa, nel quadro del Dialogo Euro-Arabo».
Il Seminario di Venezia non solo spianò la strada a un’immigrazione araba e musulmana su vasta scala in Europa, ma pianificò anche la nascita di una cultura comune in grado di abbracciare le due sponde del Mediterraneo.
La speranza nella  redenzione della decadente Europa ad opera dell’islām, unita ad  alcune correnti giudeofobiche cristiane, portò a interpretare come una vittoria cristiana la futura distruzione di Israele per mano islamica. Questo movimento, formato da religiosi,  universitari, intellettuali e opinionisti, accompagnò, inquadrò e  sostenne le politiche di immigrazione musulmana pianificate dai  governi della CEE, così come le attività del DEA.
L’espansione dei  mercati europei nei paesi arabi fu sincronizzata con l’arrivo nella  CEE di milioni di immigrati musulmani, le cui esigenze religiose, culturali e sociali erano tutelate dalle più alte autorità dei paesi  europei di accoglienza. Il 23 aprile 1976, sotto la presidenza di  Valéry Giscard d’Estaing, il primo ministro francese Jacques Chirac  emanò il colpo di grazia, un decreto che consentiva il ricongiungimento degli immigrati  alle loro famiglie. Il decreto Chirac sancì la natura permanente e definitiva  dell’immigrazione.

Dall’incontro del 1975 a Il Cairo, che enunciava i principi  generali e gli scopi del DEA, emerse che la cooperazione euro-araba  apriva nuovi orizzonti a tutti i livelli: politico, economico,  sociale e culturale.
Esso chiarì che il principale obiettivo della  cooperazione in campo culturale era «consolidare e approfondire le  basi della comprensione culturale e dell’affinità intellettuale»  tra le due regioni.
 
E, in effetti, la diffusione della lingua e della  cultura araba, specialmente nelle università, conobbe uno slancio  unico nella storia, integrandosi in modo organico con la politica  generale del DEA, ordinata, finanziata e sostenuta dai governi  euro-arabi.
Perfino ai tempi della colonizzazione, l’emigrazione  europea verso le colonie procedette a ritmi molto più lenti. Anche  dopo circa due secoli, le sue cifre, discendenti compresi, non  ammontavano che a un’esigua frazione del numero di immigrati  musulmani presenti oggi nei paesi europei e occidentali dopo tre soli  decenni. Un tale spostamento di popolazioni in un periodo così breve  non avrebbe potuto verificarsi senza l’approvazione esplicita di  tutti i capi di stato e di governo della CEE e del DEA, la struttura  istituzionale da essi creata, che lo appoggiò e neutralizzò le opposizioni.

Avendo incoraggiato questa rapida espansione musulmana, i  governi europei dovettero affrontare i problemi correlati  dell’alloggio e dell’impiego. Facendo eco alle preoccupazioni dei paesi del Maghreb per i problemi abitativi e occupazionali dei loro concittadini che lavorano in  Europa, l’11 dicembre 1978, nel corso dell’incontro di Damasco, il  DEA adottò una dichiarazione congiunta sui principi che devono  regolare le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati nelle due  regioni.
La dichiarazione, in 14 punti, insiste sull’uguaglianza economica tra i cittadini dei paesi ospiti e i lavoratori immigrati, e il diritto di tali lavoratori alla rappresentanza legale e alla formazione professionale per sé e per i loro figli.

I testi del DEA parlano di reciprocità, ma si tratta di una  clausola puramente teorica, in quanto nessun paese arabo avrebbe mai  concesso l’uguaglianza economica e giuridica a  milioni, di immigrati europei che si fossero stabiliti presso di  loro, poiché l’ha rifiutata per oltre un millennio – e ancor oggi  la rifiuta – alle sue minoranze indigene, residui dei popoli precedenti alla colonizzazione musulmana.
Così, a partire dagli anni ’70, le politiche migratorie, correlate agli scopi politici del DEA imposti dagli stati arabi e  dalle loro lobby europee, non riguardavano un’immigrazione sporadica, fatta di individui desiderosi di integrarsi nei paesi di accoglienza.
La nuova immigrazione non aveva niente a che vedere, sul  piano politico, economico e culturale, con le domande di asilo politico presentate, prima del 1989, dagli esuli in fuga dai paesi comunisti, né con le successive ondate di lavoratori italiani, spagnoli e portoghesi giunti dalle aree europee economicamente meno sviluppate.

Nessuno di questi flussi migratori, infatti, si sviluppò  in un quadro di richieste ideologiche e politiche paragonabile a  quello del DEA. L’ambizione di congiungere le due sponde del  Mediterraneo attraverso una cultura comune indusse a pianificare  l’ingresso nel tessuto sociale europeo di masse compatte e omogenee  di immigrati provenienti da Sud, che, in due decenni, divennero  milioni. Immigrati venuti non per integrarsi, ma con il diritto di  imporre ai cittadini dei  paesi ospiti la loro civiltà. La politica del DEA si  sposava perfettamente con la strategia espressa dal vertice islamico  di Lahore e sintetizzata nel progetto dei Fratelli Musulmani. Per riassumere: la colpa non è dei francesi, del belga Declerq, del DEA Dialogo euro-Arabo, dell’APCEA Associazione Parlamentare Cooperazione Euro-Araba e di tutti i parlamentari, Ministri e Governi di quel periodo che hanno scambiato noi,  la nostra terra, la nostra cultura, storia e la nostra civiltà con questi beduini per poco più di un barile di petrolio, ma la vera colpa è di Voi tutti, si Voi,  che consapevoli di tutto questo non fate nulla pur essendo ancora in tempo, per fermare l’olocausto della civiltà occidentale.

Un sincero ringraziamento a Bat Ye’or.

Armando Manocchia

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