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“Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto”

23 febbr – Era il luglio del 2000 e una tenda di profughi somali in piazza Duomo scatenò una polemica rovente. Oggi per quell’episodio è stata notificata al presidente della comunità somala toscana, Osman Gaal, una cartella esattoriale da 29.000 euro per indebita occupazione di suolo pubblico. Una multa non pagata di 250 euro che si è moltiplicata negli anni. “La multa non mi è mai stata notificata — afferma Osman Gaal —. Contestualmente alla cartella esattoriale mi è stato notificato anche il fermo amministrativo della mia auto”.

La tenda delle polemiche venne piantata in piazza Duomo più di 13 anni fa in occasione di una manifestazione dei profughi somali per chiedere il ricongiungimento dei familiari. Una tenda di musulmani davanti al bel san giovanni!

Apriti celo. Tra i più sdegnati c’era la scrittirce Oriana Fallaci, già in piena crociata anti islam (poi confluita nel suo “La rabbia e l’orgoglio”). “Io non vado a rizzare tende alla Mecca – disse – Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto”. La cosa paradossale è che la tenda non fu installata dalla comunità somala, e men che meno voleva essere una provocazione verso la religione cattolica. Era un pezzo di una manifestazione cui parteciparono in molti, per la rivendicazione dei diritti, con tanto di espressione di solidarietà del vescovo.
Gaal è già stato in Comune dove gli uffici competenti sostengono che la notifica gli era stata fatta. I vigili urbani invece dicono di no. Insomma, ora partono i ricorsi. E, da parte di qualche politico, anche le polemiche. “Gaal ringrazi che le nostre istituzioni sono deboli – non ha mancato di commentare il capogruppo regionale di Fratelli d’Italia giovanni Donzelli – un buon sindaco avrebbe chiesto il risarcimento per i danni all’immagine della città“.

http://www.toscanatv.com/leggi_news?idnews=AA171886

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Ecco cosa scrisse Oriana

Una tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che li ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per l’Europa e non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti. Mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti dei parenti. Una tenda situata accanto al bel palazzo dell’Arcivescovado sul cui marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte che nei loro paesi allineano fuori dalle moschee. E insieme alle scarpe o le ciabatte, le bottiglie vuote dell’acqua con cui si lavavano i piedi prima della preghiera. Una tenda posta di fronte alla cattedrale con la cupola del Brunelleschi, e a lato del Battistero con le porte d’oro del Ghiberti. Una tenda, infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie, tavolini, chaise–longues, materassi per dormire e per scopare, fornelli per cuocere il cibo e appestare la piazza col fumo e col puzzo. E, grazie alla consueta incoscienza dell’Enel che alle nostre opere d’arte tiene quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di luce elettrica. Grazie a un radio–registratore, arricchita dalla vociaccia sguaiata d’un muezzin che puntualmente esortava i fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il suono delle campane. Insieme a tutto ciò, le gialle strisciate di urina che profanavano i marmi del Battistero. (Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah! Ma come facevano a colpire l’obiettivo separato dalla ringhiera di protezione e quindi distante quasi due metri dal loro apparato urinario?) Con le gialle strisciate di urina, il fetore dello sterco che bloccava il portone di San Salvatore al Vescovo: la squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta alle spalle di piazza del Duomo e che i figli di Allah avevano trasformato in cacatoio. Lo sai bene.

Lo sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul ´Corriereª, ricordi? Chiamai anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a casa mia. Mi ascoltò, mi dette ragione. “Ha ragione, ha proprio ragione…” Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò o non gli riuscì. Chiamai anche il ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei fiorentini che parlano con l’accento molto fiorentino, nonché coinvolto nella faccenda. E pure lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: “Eh, sì. Ha ragione, sì.” Ma per toglier la tenda non mosse un dito e, quanto ai figli di Allah che urinavano sul Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo, presto li accontentò. (Mi risulta che i babbi e le mamme e i fratelli e le sorelle e gli zii e le zie e i cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano stare). Cioè a Firenze e in altre città d’Europa. Allora cambiai sistema. Chiamai un simpatico poliziotto che dirige l’ufficio–sicurezza e gli dissi: “Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la faccio. Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo. Se entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con le manette. Così finisco su tutti i giornali.” Bè, essendo più intelligente degli altri, nel giro di poche ore lui la levò. Al posto della tenda rimase soltanto un’immensa e disgustosa macchia di sudiciume. Però fu una vittoria di Pirro. Lo fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella che era la capitale dell’arte e della cultura e della bellezza

Non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano. Eh, sì: sono tutti dov’erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda. Dentro il piazzale degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto. Dinanzi alla Loggia dell’Orcagna, intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla Biblioteca Nazionale, all’entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto si pigliano a coltellate o a revolverate. Sui Lungarni dove hanno preteso e ottenuto che il Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse). Sul sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra e i liquori, razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La scorsa estate, su quel sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono un’antica signora. E va da sé che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno sta ancora lì a mugulare sui suoi genitali). Nelle storiche strade dove bivaccano col pretesto di vender–la–merce. Per merce intendi borse e valige copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi illegali, gigantografie, matite, statuette africane che i turisti ignoranti credono sculture del Bernini, roba-da-annusare. (“Je connais mes droits, conosco i miei diritti” mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a cui avevo visto vendere la roba-da-annusare). E guai se il cittadino protesta, guai se gli risponde quei–diritti–vai–ad–esercitarli–a–casa–tua. “Razzista, razzista!.” Guai se camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone gli sfiora la presunta scultura del Bernini. “Razzista, razzista!.” Guai se un Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: “Signor figlio di Allah, Eccellenza, le dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?.” Se lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la mamma e la progenie. “Razzista, razzista!.” E la gente sopporta, rassegnata. Non reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il fascismo: “Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l’avete un po’ d’orgoglio, pecoroni?.”

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