Pubblicato il 25/12/07 alle 19:59:46 GMT pubblicato da Una_via_per_Oriana
di Cesare Catà
Dieci mesi fa, nella sua Firenze, moriva Oriana Fallaci. In questi mesi, l’intero mondo dei media, tv e giornali, radio e internet, riviste e libri, che subito dopo la sua morte aveva levato scompostamente un coro luttuoso attorno al suo nome, ora sembra giacere dimentico, salvo rare e bellissime eccezioni. D’altronde, quello alzatosi sul cadavere intellettuale di Oriana era un coro quasi sempre formale, fatto d’ipocrita cordiglio, talvolta di deliranti e infamanti parole – che neanche di fronte a un morto riescono a non palesare l’imbecillità di una certa cultura, e di alcune menti spente. Ma era anche un coro di voci lucide e commosse, come quello che apparve sulle pagine di Libero. Un coro che si estese a tutte le dichiarazioni – mai come in questo caso visibilmente imbarazzate – dei politici. È un coro, quello che si levava nell’ora della sua morte e che ora tace, che forse lei, Oriana, avrebbe chiamato un coro di cicale: un risuonare, stupido e irritante, di voci senza coraggio, di anime svilite in corpi coi cuori vuoti e con le pance piene. Per fortuna, alla fine di tutto, come sempre, resta la verità. Il vento e il silenzio fanno piazza pulita dell’inutile e dello sporco. Alla fine, adesso, resta un intellettuale quale la nostra piccola Italia ha conosciuto solo raramente; resta la forza di una scrittura che nelle pagine della nostra letteratura ha fatto capolino solo in un qualche raro verso del passato; resta la lucidità coraggiosa di una storica – perché così Oriana amava definirsi in quanto giornalista vera – in grado di guardare in faccia il presente, senza battere ciglio, sicura che sarà il presente a farlo, non reggendo il suo sguardo. Resta, soprattutto, l’immagine di una donna-guerriera, guerriera con la penna e attraverso la forza della ragione. Resta, imperitura, la testimonianza di un intellettuale che finalmente non rimane chiuso nella torre d’avorio – presidiata da appoggi politici sinistri – della sua mediocrità. Un intellettuale davvero e finalmente politicamente non-corretto, popolare, dalla cui bocca non vediamo sbavare vuote ideologie preconcette o mosci giudizi sulla terribilità del mondo. Un intellettuale quale lo è stato PierPaolo Pasolini, con la medesima intelligenza critica, con lo stesso indomito coraggio da cavaliere medievale. Pasolini diceva, e ne fu vivente testimonianza, che un intellettuale, quando è sincero e appassionato, è sempre scandaloso, per definizione. Perché vede il dato oscuro delle cose, e lo denuncia. Oriana Fallaci è stata senza dubbio l’intellettuale più scandaloso, in senso pasoliniano, del nuovo Millennio. L’unica scrittrice veramente luterana e corsara del Duemila, in Italia.
Provo un misto di schifo, rabbia, pena e ribrezzo nei confronti di quanti l’avevano oltraggiata, in vita, e ora persino in morte. Lei, che con tanta lucida crudeltà ha saputo fotografare e descrivere il reale, dava (e continua a dare, ancora) voce, fierezza e coraggio a tanti – ma anche fastidio a troppi. In Europa, specie in Italia, vige il principio marxista della mediocrità istituzionale. Le eccellenze vanno elise, tarpando loro le ali. Specie nel campo della “cultura”, luogo gramscianamente egemonico di certe tendenze, impera una mediocrazia avvilente e capillare. Per questo, l’angelo-ribelle Oriana dava fastidio ai troppi illusi, stupidi idioti, che sventolando bandiere arcobaleno pensano – dal ’68 a oggi – di fare gesti in favore dell’umanità, figli di papà che da 40 anni cianciano di povertà, pacifisti della domenica col bancomat. Ai troppi politici inetti, codardi, disonesti e meschini – che altro non hanno saputo fare che snobbarla, rifiutandole il dovuto riconoscimento (foss’anche solo per le sue imprese giornalistiche) di senatore a vita. Perché un intellettuale come la Fallaci scuote le coscienze, dice il vero e lo dice intero, non velato. Parla faccia a faccia, cuore a cuore, cervello a cervello con il popolo. E questo dà fastidio – ancora – ai tanti che pretendono che la cultura sia il masturbatorio esercizio accademico di una pseudo-élite intellettuale, come voleva Gramsci. La Fallaci spacca questa persuasione, e sputa, anche da morta, sulle tante lacrime coccodrillesche scorse subito dopo la sua morte. Vigliacchi. Vigliacchi. La Fallaci è insopportabile per i comici inutili ed egocentrici come Sabina Guzzanti, che grazie a forti appoggi politici della parte di cui è serva gioca a fare la comunista, inetta in qualsiasi arte teatrale, “oca crudele”. Ai pagliacci come Roberto Benigni, saltimbanco delle ovvietà demagogiche, furbo abbastanza da diventare milionario riuscendo a interpretare solo la parte di se stesso. Ai giullari come Dario Fo, che in un tempo minimamente civile avrebbe ricoperto il ruolo che nel Medioevo era quello proprio del giullare: due salti per ricevere in ginocchio una nocciolina dal Sovrano seduto sul trono, e che nella nostra era nefanda si erge invece a giudice morale di uno scrittore della levatura di Oriana Fallaci. Taccia, oggi, l’eco di questo cicalio insopportabile. Oriana Fallaci, con la sua forza dirompente di scrittrice appassionata, di donna con negli occhi gli occhi della Storia, spazza via quella brodaglia culturale che da sessant’anni si è imposta nella nostra piccola Italia nelle forme del sinistrismo idiota, del buonismo, del permissivismo, del relativismo. Del nichilismo, insomma, come ci ha spiegato Ratzinger. Perché Oriana Fallaci, nella sua lunga, complessa carriera di scrittura, manda in cortocircuito sia la destra che la sinistra, non piacendo a nessuno. Se non al popolo. Ed è qui che un intellettuale vero si distingue dal finto ideologo nella sua attività “ermetica” e masturbatoria, da talk show: quando fa vibrare le corde dell’umano, toccando ogni cuore. Oriana Fallaci ha detto. Con forza, interamente e chiaramente. Ha detto totalmente e perfettamente che oggi l’Islam è il nostro nemico. E l’accorgimento (vero), che nota che non tutto l’Islam è terrorista e omicida, qui non serve: non vale. Perché il messaggio di cui lei (da sola!) si è fatta interprete sapiente è troppo urgente. Se si muore di una febbre, il bollettino medico non sta a precisare che vi sono febbri non mortali. Perché ne va del malato. Ma per parlare così serve coraggio, passione, talento, ispirazione. Ed è raro che tutte queste cose coabitino in un solo scrittore. Accade poche volte in un secolo, come Moravia urlava con la voce rotta ai funerali di Pasolini.
PierPaolo Pasolini moriva ucciso dalla stupidità di un gruppo di neo-fasciscti in una sudicia nottata omosessuale sulla spiaggia di Ostia. Oriana Fallaci è morta in un ospedale della sua Firenze, di ritorno da un esilio volontario – ma quasi forzato dalla storia – nella fantastica capitale mondiale New York. Oggi mi faccio una domanda, fortissima: senza Oriana Fallaci avremmo davvero capito l’11 settembre? Io, personalmente, credo di no. Perché lei ne intuì per prima, con quel suo acume giornalistico selvaggio e rigorosissimo, la portata storica e antropologica. Contro (e non dopo) l’11 settembre, lei, arrabbiata e orgogliosa, si è alzata come una fenice sulle ceneri del silenzio in cui aveva scelto di rimanere per i dieci anni del suo esilio newyorchese. Oriana Fallaci ha strillato, lottando con lo scrivere, che “Ilio brucia!”, come Cassandra andava dicendo giorni prima che la città venisse assediata e distrutta. E Ilio, nel discorso di Oriana, è l’Occidente. Un Occidente che si sta sgretolando, e che dobbiamo reimparare a concepire, come saggiamente dice Marcello Pera. Sappiamo quanto fu fatale, per Ilio, non prestare ascolto alle parole della profetessa ellenica. Come Nietzsche, in maniera altrettanto “inattuale”, Oriana Fallaci ci ha diagnosticato che l’Occidente patisce una malattia mortale. E questa malattia mortale è il nichilismo, quel non-rifiutare la morte, ma anzi averne il culto, che lei vedeva – non senza ragioni – realizzato nell’Islam contemporaneo. Altro che ceneri di Gramsci. Le ceneri di Oriana Fallaci, davvero, continuano a bruciare come quelle di un eroe. Un eroe vero. E un eroe – checché ne dica Brecht – è ciò che un popolo degno di chiamarsi tale desidera più profondamente di ogni altra cosa. Abbiamo un grande bisogno di eroi: oggi più che mai; di eroi come Oriana Fallaci.
Atea cristiana. Atea grazie a Dio. Chi legge come degli ossimori queste autodefinizioni della Fallaci sbaglia. Lei era troppo intellettualmente onesta e troppo umanamente coraggiosa per non ammettere che Dio si manifesta a noi proprio nello scandalo della sua assenza. E quello che ci rimane di fronte è lo smarrimento di una domanda più grande di noi stessi. Domanda che non deve essere risolta. Non serve. Perché è già, essa stessa, teofania. Questa è l’essenza dell’Occidente che Oriana-Cassandra ha denunciato stare perdendosi in una poltiglia di pensiero debole, permissivismo, dimenticanza delle radici, multiculturalismo, progressivismo cieco, indistinzione fra generi sessuali, relativismo nichilista. Con maggior ardimento, con più passione e più disciplina, allora, torniamo alle pagine che lei ha concepito dopo la tragedia dell’11 settembre, per declinare, oggi, la nostra forza della ragione. Abbiamo ancora il coraggio, innanzi alla Storia e persino innanzi alla morte, di provare due cose, soltanto due cose, oggi, in quanto cittadini occidentali e in quanto esseri umani: rabbia e orgoglio. Coraggiosamente, come faceva lei.