Pubblicato il 25/04/08 alle 13:27:11 GMT pubblicato da Annarita
di Carla De Girolamo
Libri, libri ovunque, e tonnellate di carta. Ma anche quegli assurdi oggetti che ricamava, cuscini, quadri e un’aria country che sembra la piccola casa nella prateria…”. Sorride Edoardo Perazzi, 42 anni, nipote di Oriana Fallaci, da lei scelto come suo unico erede, quando parla della casa newyorkese della zia (anzi dell’Oriana, con tanto di articolo, “perché guai a chiamarla zia!”). Una casa che ha frequentato per anni e dove ha trascorso con lei gli ultimi giorni di grande sofferenza, prima di riportarla a morire nella sua Firenze.
I ricordi di una zia tanto importante quanto ingombrante si intrecciano con quelli della casa e con le sorprese che sono emerse dalle cataste di libri e quotidiani polverosi. “È incredibile come una donna così feroce, così autoritaria e per certi versi così maschile, visto il mestiere che faceva e il ritmo di lavoro che si imponeva, avesse un côté quasi romantico” racconta Perazzi. “Sapeva cucinare molto bene, ricamava a piccolo punto tessuti, broccati e poi ti regalava una presina o un cuscino, una sacca per la biancheria: era un suo modo per rilassarsi. E queste passioni le ritrovi nella casa molto colorata”.
Perazzi ne conosce a memoria ogni angolo: “Per forza, me l’ha fatta lavare e lustrare un sacco di volte. Era normale, tu andavi lì, lei era sempre da sola e ti schiavizzava. Una volta, ero al primo anno di università a Chicago, mi disse: ‘Poverino, che fai lì tutto solo, vieni a trovarmi, ti fai una bella mangiata qui a New York’. Io ci cascai come un tordo, anche se ero già insospettito del fatto che non mi avesse mandato un biglietto dell’aereo ma del pullman Greyhound. Insomma, dopo un giorno e mezzo di viaggio busso alla sua porta sporco, distrutto, lei mi mette una fretta dannata per farmi lavare: aveva ospite Sean Connery e la moglie, per un giorno ho fatto da cameriere per i suoi ospiti e poi sono stato rispedito all’università, ma solo dopo avere lavato tutti i piatti”.
Tornare in quella casa dopo la morte di Oriana è stato doloroso “ma per certi versi anche molto toccante. È in una posizione che per lei era strategica, vicinissima alla Rizzoli e al suo adorato Bloomingdale, con un piccolo giardino dietro, su tre piani, la facciata bianca e all’interno molto caotica e colorata, zeppa di oggetti, lumi, lampade, cuscini”. E libri… “Già, ma non solo i suoi, con un incubo di copertine tutte uguali. C’erano libri di autori di ogni genere con dediche molto affettuose e ci sono le librerie importanti, quelle del salotto, tutte piene di volumi antichi e prime edizioni, che ha regalato all’Università Lateranense.
Se volevi essere menato a sangue dall’Oriana ti bastava aprire un libro fino a spaccarne la costa: era capace di fartelo inghiottire. Una volta eravamo seduti vicini in aereo, diretti chissà dove. Lei leggeva i giornali, io avevo in mano un volume della Urania e mi ricordo che lo aprii tutto, spiaccicandolo per poterlo leggere comodamente, ma feci rumore e lei cacciò un bercio che si girarono tutti. Me lo voleva rompere in testa e mi ha tenuto il muso per tre giorni.
E, sempre a proposito di libri, mi è tornato in mente che avrò avuto una decina d’anni e l’Oriana mi disse: ‘Hai mai letto Jack London? Non conosci Jack London?’, e sconsolata mi mise in mano Il richiamo della foresta. Io lo lessi, mi piacque tantissimo ma ci rimasi male, il protagonista moriva. E lei s’infuriò: ‘L’ho sempre detto che sei cretino, l’eroe non è l’essere umano ma il cane!’”.
Oltre ai libri e a tonnellate di giornali Perazzi ha trovato ovviamente “tanta parola scritta. L’Oriana aveva un modo di lavorare folle: un’intervista principale e poi un sacco di appunti collaterali. Quindi per ogni articolo ha conservato la trascrizione dei nastri, i suoi appunti e una prima stesura dattiloscritta. Poi ci sono i nastri trascritti in versione definitiva, 20-30 pagine a botta. Non usando il computer ogni volta riscriveva tutto per controllare la metrica. Andava a caccia di una ripetizione anche dopo sei pagine, era tremenda e intransigente innanzitutto con se stessa. Alla fine magari ritrovi sei versioni dello stesso testo che differiscono pochissimo, dell’intervista ad Ariel Sharon ho trovato 19 stesure, pressoché identiche. Catalogare il suo lavoro è stato un incubo, però anche molto divertente”.
In questa grande mole di materiale ci sono anche molti scritti personali. “Ho trovato lettere a morosi e familiari, cose che riguardavano me che mi hanno colpito. Quando mi sono sposato, nel 1994, lei doveva fare un lungo ciclo di chemioterapia e non poteva viaggiare. In regalo mi ha mandato due pagine di una sua riduzione del Cantico dei cantici scritta per benino su un cartoncino, e due cassette lette da lei, con la sua voce roca e tutta impostata. Il giorno del matrimonio abbiamo fatto sentire a tutti la sua lettura del cantico, molto bella, ma sotto sotto ho continuato a pensare che avrebbe anche potuto mandarmi un regalo un po’ più prezioso…
“Beh, nel sistemare ho trovato 12 versioni del Cantico, 3 mila stesure diverse fatte con la sua solita attenzione maniacale. In quel regalo c’erano almeno due mesi di lavoro. Ecco, lei era così, magari tirchissima su certe cose, ti mandava a comprare una penna e ti chiedeva il resto di 20 centesimi, però ti dedicava tanto tempo, ti stava a sentire. Avevi un problema con il sederino arrossato del bambino? Lei ti dava dei consigli o s’impegnava a cercare la soluzione. Ho sempre visto questa donna come una roccia e invece ho scoperto dopo che aveva una vita di arrovellamenti e di sofferenze. E anche di quanto tempo perdesse su problemi di infimo ordine.
“C’era per esempio tutta una corrispondenza su un conto da pagare: non lo aveva pagato perché non era d’accordo, poi l’ha pagato ma non era soddisfatta, insomma un epistolario di 20 pagine. Però la cosa più divertente che ho trovato è un messaggio per il negozio che le doveva riparare la solita macchina per scrivere: c’era incollato con un pezzo di scotch il braccino con la lettera rotta e poi tutto il disegno dello schema delle lettere per risistemarlo e una spiegazione dettagliatissima. Arrivava a farsi dare gli stucchi dai dentisti per riparare la sua adorata macchina”.
Cosa l’ha stupito in modo particolare? “Amava molto certi quadernetti ricoperti di tela a fiori, e in uno di questi c’era la prima stesura di Lettera a un bambino mai nato, tutta scritta con la biro, intitolata Letter to a neverborn child, New York 1967. Era la prova di quello che avevo sempre sospettato. Oriana ha sempre detto che quel libro l’aveva scritto nel 1975 spinta dal suo direttore. Invece è un progetto che si è sempre portata dentro. A me diceva: ‘Tu ti chiami come mio padre, sei pelato come un astronauta e sei nato l’anno in cui ho perso il bambino’. I conti tornano: io sono del 1966 e il libro scritto a penna è datato 1967, è stato emozionante mettere insieme le cose”.
Manca qualcosa che invece si aspettava di trovare? “Non ho trovato alcuna registrazione della voce di Alekos Panagulis. Di lui l’Oriana ha conservato vestiti e pipe, ma ha distrutto tutti i nastri, le faceva impressione riascoltarne la voce. Quando finalmente ho trovato delle cassette con scritto ‘Alekos’, speravo fossero i nastri, invece era della musica greca orribile, il riascolto è stato agghiacciante”.
Alcuni oggetti sono stati esposti nella mostra dedicata alla giornalista che, dopo essere stata a Milano, sarà ospitata a Firenze e a Roma. “Ci sono i suoi quaderni delle elementari, che dimostrano quanto fosse secchiona già da bambina, e traduzioni di Sofocle, tutto un lavoro su Senofonte con i suoi commenti: negli anni Trenta lei parla di ‘coglioni’ greci e spartani. E anche gli oggetti degli astronauti, la scheggia della bomba che le esplose vicino in Vietnam, i suoi cappellacci”.
Tra le carte ritrovate da Perazzi anche molte lettere: “C’è quella di Woody Allen che implora la segretaria di Oriana di intercedere per farsi intervistare da lei, una di Raffaella Carrà, di Bo Dereck, Woopy Gooldberg, quelle più intime ai genitori e ad alcuni fidanzati. Ho anche trovato delle fantastiche poesie giovanili, che neanche sotto tortura farò mai pubblicare. Tutto questo materiale saltava fuori dai posti più assurdi: nascosto in mezzo alle mutande, tra i libri.
Si comprava o ti faceva comprare decine di volte lo stesso oggetto perché lo perdeva. E intanto non buttava via nemmeno la spazzatura, quindi i poveracci ammessi a casa sua venivano sfruttati come manovalanza per buttare centinaia di bottiglie di olio vuote, qualsiasi cosa. La casa era ridotta male. Non un letamaio, perché lei era molto pulita nella persona, fino all’ultimo istante anche quando non si reggeva in piedi voleva essere pettinata, sentirsi in ordine. Però era proprio casinista”.
E i vestiti? “Ha sempre avuto un suo gusto preciso, una specie di uniforme, e gli abiti che ha lasciato sono abbastanza orrendi. Gli stilisti le regalavano delle gran cose ma lei molte le rimandava indietro. La sua borsa era mostruosa, di finta pelle, accomodata con nastro da elettricista, ci teneva i documenti, il manoscritto dell’ultimo libro, soldi e gioielli, tutta la sua vita. La portava sempre in giro, poi nell’armadio ho trovato bellissime borse di Vuitton più pratiche e nuovissime.
La sua divisa era composta da golfino o camicettina, giacchina di tweed e una gonna al ginocchio. Ho trovato abiti da sera di Pucci, di Valentino, però non li metteva mai, la sua idea di abito da sera erano queste terrificanti giacche indiane di paillettes che comprava nei grandi magazzini”.
Cosa prenderà per sé dalla casa di Oriana? “Una piccola cassapanca fatta da mio nonno Edoardo, sembra un oggetto del Settecento, alla quale lei era molto affezionata e le è stata di ispirazione per il libro che non ha fatto in tempo a pubblicare. Mi aveva fatto giurare che l’avrei conservata io”. Dov’è ora il libro? “È chiuso in una cassetta di sicurezza, aspetto che si concluda la questione della successione negli Stati Uniti, poi è tutto pronto per stamparlo. Benché sia incompiuto, è un lunghissimo racconto sui suoi antenati, bellissimo ma anche pieno di storie drammatiche. Mi ha dato disposizioni precisissime su come pubblicarlo: non toccare neanche una virgola. E così farò.
“Certo, la soddisfazione di andare a vedere tutto il materiale e le prime stesure me la toglierò, ce n’è una libreria piena, che dimostra come abbia lavorato a questa idea per 10 anni. In un romanzo quello che Oriana fa dire a un personaggio magari è inventato di sana pianta, ma il contesto storico e addirittura meteorologico del giorno in cui la frase viene pronunciata devono essere veri. Ho trovato uno scomparto di questa libreria tutto occupato da registri navali che le servivano a mettere il nome vero di un piroscafo che il tal giorno a metà Ottocento fa la rotta Livorno, Plymouth e New York, e sicuramente lei ha rotto le scatole a mezzo mondo, ci ha perso sei mesi solo per avere un nome giusto che invece poteva inventare.
“È difficile raccontare l’Oriana” conclude Perazzi “vorrei che si capisse veramente che tipo di persona era. Certo una belva molto esigente, il termine inglese demanding è perfetto, dovevi dedicarle molto, e lei complicava qualsiasi cosa. Quello che forse non si sa è che aveva un bel senso dell’umorismo, era divertente. La tecnica giusta era risponderle per le rime o tenerle testa senza mancarle di rispetto, in quel caso si infuriava senza possibilità di scampo. Ma se la frequentavi avevi davvero l’impressione di una mente superiore”.