Pubblicato il 11/09/11 alle 13:58:18 GMT pubblicato da Una_via_per_Oriana
E’ giusta l’esclusione delle religioni dalla commemorazione ufficiale dell’11 settembre? Al giungere di uno degli anniversari più importanti della storia recente, milioni di persone in tutto il mondo sono invitate a commemorare gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 alle città degli Stati Uniti. La ricorrenza del 10° anniversario dei terribili attentati che fecero crollare le Torri Gemelle di New York e uccisero più di 3000 persone ha già suscitato un’enorme quantità di commenti da parte dei media, sia in America che nei paesi amici. Nei loro articoli, gli esperti si chiedono cosa ci abbia insegnato la “Guerra al terrore” degli ultimi dieci anni, e traggono conclusioni contrastanti.
C’è qualcosa , tuttavia, su cui tutti concordano a proposito dell’11 settembre: i cittadini americani possono essere bersaglio di attacchi in qualsiasi momento, nel proprio paese, nella normalità delle loro vite, completamente al di fuori da un contesto di guerre formali. Il fatto che lo stesso fatto si sia dimostrato vero anche per gli inglesi, gli spagnoli, gli indiani ed altri a partire dal 2001, rende questa consapevolezza ancora più cupa e dolorosa. Essa riempie quegli eventi, così pieni di dolore umano, di un significato patriottico, rendendo le vittime paragonabili a soldati caduti, e i sopravvissuti simili a veterani di guerra. Gli anniversari di tali eventi assumono così la solennità di un Giorno della Memoria, e richiedono un rito analogo.
Ma qui ci imbattiamo in una difficoltà: che tipo di rito può essere utilizzato in una società sempre più secolarizzata e multiculturale? Anche gli Stati Uniti, che sono più religiosi della maggior parte degli altri paesi occidentali, manifestano la tendenza crescente ad escludere la religione dalla sfera pubblica (come, ad esempio, nella sostituzione della parola Natale con “Holidays” ["Vacanze" o "Festività", NDT]) e per quanto possa essere ancora tollerata una conduzione interreligiosa di una commemorazione pubblica, la presenza della fede islamica è offensiva per alcune persone. Ciò è particolarmente vero nel caso del “luogo sacro” dell’11 settembre, Ground Zero, come è risultato evidente quando si è rinunciato al progetto di costruire una moschea a due isolati di distanza.
Il sindaco di New York Michael Bloomberg ha quindi deciso che non vi sarà alcun ministro di culto officiante, né preghiere formali, nella solenne cerimonia di commemorazione di domenica 11 a Ground Zero. La suo portavoce ha detto che la decisione è stata presa per evitare disaccordi su quali leader religiosi avrebbero partecipato. Il programma, concordato con le famiglie delle vittime, prevede invece alcune letture “di natura personale e spirituale”, nonché sei minuti di silenzio destinati alla riflessione e alla preghiera personale.
La Casa Bianca, per motivi politici, vuole attenuare la comemmorazione centrata sull’11 settembre con il ricordo delle ferite inferte dal terrorismo altrove nel mondo e con una “narrazione positiva e lungimirante”, che sottolinei la “resilienza”. Le linee guida predisposte per le comunicazioni ufficiali nazionali chiedono anche di insistere sullo “spirito di unità che ha prevalso nel periodo immediatamente successivo agli attentati”. Non è chiaro se il presidente Obama voglia addirittura permettersi un “Dio benedica l’America”, ??che potrebbe suonare troppo sciovinista.
Lo staff di Bloomberg e i leader religiosi che difendono la cerimonia “senza religione” a Ground Zero precisano che si sono già svolte e si svolgeranno funzioni religiose in altre parti della città, per chi ne avvertisse l’esigenza; e ad ogni modo, molte persone non hanno alcuna affiliazione religiosa, e per di più, vi sarebbe la questione di come debba svolgersi un adatto rito commemorativo. Le letture “spirituali”, la recita dei nomi dei morti, i silenzi, i discorsi sulla resilienza e sulla risposta unitaria… saranno una soluzione adeguata alla solennità dell’occasione e alla profondità delle emozioni ad essa legate?
L’esperienza dei funerali in cui la religione è assente, o ha un ruolo marginale, non è incoraggiante in questo senso. Tagliati fuori dal loro significato trascendente, i riti rapidamente scadono in quel tipo di banalità che la giornalista canadese Barbara Kay ha recentemente chiamato ”dolore da orsacchiotto di pezza“, evocando la tipologia di oggetti che ultimamente orna spesso il luogo di una tragedia. In quei regalini, o nella serie di aneddoti familiari che prende il posto degli elogi funebri, o nelle canzoni pop che sostituiscono gli inni sacri, c’è ben poco che possa confortare le persone in lutto e infonda loro speranza. La cerimonia di Ground Zero sarà senza dubbio più dignitosa di tutto questo, ma sarà sufficiente? E se anche bastasse per quest’anno, dovremo continuare ad accontentarci di riti senza religione?
Se l’esperienza neozelandese vale qualcosa, la risposta sembra essere no. Qui, la cultura Maori gioca un ruolo crescente, in occasioni pubbliche che spaziano dall’inaugurazione delle biblioteche comunali ai funerali di stato, e il cerimoniale Maori prevede karakia, o preghiere, offerte come una benedizione sulla cerimonia. Persino la squadra degli All Blacks ha ricevuto una benedizione Maori per la Coppa del mondo di rugby appena iniziata. Il fatto che dia fastidio ai laicisti non riuscirà con ogni probabilità a fermare questa tendenza, in quanto il riferimento alla cultura indigena del paese è una questione di political correctness.
Ma c’è di più. I karakia (specialmente dal momento che sono cantati) in qualche modo elevano le cerimonie al di sopra della sfera mondana, e vi aggiungono solennità. Si riconosce implicitamente che la maggior parte dei presenti in realtà non si oppongano a un’espressione religiosa, e che alcuni vi si riconoscano positivamente. Oltretutto il rituale maori allevia l’imbarazzo dei non-religiosi rivolgendosi alla (o alle?) divinità in una lingua che la maggioranza dei presenti non conosce. C’è un po’ di ipocrisia in tutto ciò, ma in questo modo si aggira il problema religioso.
Gli americani troveranno le proprie soluzioni. Una cosa è chiara, comunque, anzi due. La prima è che anniversari come quello dell’11 settembre richiederanno una qualche forma di commemorazione pubblica per un lungo tempo nel futuro. La seconda è che le persone, persino quelle che non hanno esperienza di riti religiosi – o soprattutto loro – sono affascinate dalla solennità in tali occasioni.
Per citare un’altra esperienza dall’Oceania, sia in Australia che in Nuova Zelanda c’è stata una rinascita della commemorazione funebre nell’Anzac Day, con una notevole presenza di giovani. Molti hanno fatto un pellegrinaggio a Gallipoli (Turchia), il teatro della strage di soldati alleati nella prima guerra mondiale commemorata in quel giorno, tanto che questo è diventato quasi un rito di passaggio per i giovani adulti che vivono all’estero. Tornati in patria, i giovani in quel giorno se ne stanno in attesa, nel freddo o nella prioggia, prima dell’alba, e accettano volentieri un breve rito che comprende preghiere, il solenne e suggestivo “Last Post”, e l’inno nazionale (che in Nuova Zelanda è un vero e proprio inno cristiano, anche se spesso cantato in maori, per non mettere in imbarazzo chi si sente a disagio con frasi come “rendici a Te fedeli”).
Patriottismo e religione vanno di pari passo, e il tentativo di separarli è destinato a distruggere entrambi. Il patriottismo senza religione resta privo del suo principio chiave unificante e umanizzante; la religione senza il patriottismo diventa qualcosa di incorporeo e irrilevante. Entrambi i tipi di inautenticità portano alla divisione sociale e al degrado: una triste eredità per tutti coloro che hanno perso la vita per il loro paese, in qualsiasi modo.