Anche se molti non lo sanno, lo Stato di Israele riconosce i tribunali islamici, che basano le loro sentenze sulla sharia. Rappresentano una tipica istituzione comunitarista che, inevitabilmente, antepongono le dottrine delle comunità ai diritti civili degli individui.
Una donna musulmana, un anno fa, ha avviato un procedimento di divorzio. Ha chiesto che l’arbitro fosse una donna. La normativa in vigore, che si basa per l’appunto sulla sharia e che si rifa al diritto di famiglia ottomano, riserva tuttavia tali casi ad avvocati di sesso maschile. Il tribunale islamico ha quindi detto “no”, rifacendosi a pareri giuridici di oltre un millennio fa.
La donna, scrive Haaretz, ha presentato ricorso, ma una corte islamica d’appello ha confermato la liceità della discriminazione di genere. A questo punto si è rivolta alla giustizia civile, sostenuta da un avvocato ebreo e da un’associazione femminista araba, e il caso è approdato alla Corte suprema, che ha chiesto al tribunale islamico di motivare le sue “ragioni”.
La vicenda mostra ancora una volta le falle dei sistemi basati su un approccio multiculturalista. In tali contesti l’appartenenza confessionale ereditata dai genitori si rivela una gabbia da cui, giuridicamente, è sovente impossibile uscire.
http://www.uaar.it/news/2012/05/13/israele-divorzio-musulmana-vuole-arbitro-donna-il-tribunale-islamico-dice-no/