È l’italiano che è stato più a lungo nello spazio, 174 giorni: “Oriana mi ha aiutato e spronato, siamo stati in simbiosi L’astronauta superman? Macché bisogna sapere lavorare tanto e in team” (il giornale)
«A volte mi dicono: “Grande!” E io rispondo: “Veramente più alto che grande”…». Per Paolo Nespoli lo spazio non è faccenda da supereroi. È piuttosto un’impresa da «uomo medio», dice il quinto italiano (su sette) a essere stato lassù, il primo per un lungo periodo. In totale, 174 giorni trascorsi nello spazio.
«Per un ragazzino nato a Verano Brianza… se me l’avessero detto, non ci avrei mai creduto».
Ma è un brianzolo anche da astronauta?
«Io sono cresciuto in quella cultura lì: se non lavori e soffri, non stai facendo abbastanza. E andavo all’oratorio, come tutti, perciò mi porto dietro anche lo spirito della parrocchia».
Che cos’è lo spirito della parrocchia?
«La cultura cattolica del fare del bene. Se qualcuno mi chiede aiuto non riesco a dire di no. Ho provato a comportarmi diversamente, quando ero alla Nasa, ma poi ho deciso che preferivo essere come sono. Solo che la mia strada è sempre in salita».
Ma già da piccolo sognava di diventare astronauta?
«Sì, ero affascinato dalle immagini della Luna, dell’Apollo. Però negli anni Settanta, in Italia, razionalmente era impossibile. Sapendo di questo mio sogno, a 14 anni la fidanzatina mi regalò Se il sole muore , libro-reportage della Fallaci sugli astronauti».
Un segno del destino?
«Capii che mi sarebbe piaciuto davvero, ma anche quanto fosse impossibile. Feci il liceo scientifico e poi il Politecnico a Milano, ma non mi trovavo bene e avevo molti screzi a casa, con mia madre».
Era un ribelle?
«Assolutamente ribelle, anticonformista. Così lasciai l’università e subito arrivò la cartolina per il militare: paracadutisti, come avevo chiesto alle visite di idoneità. Così partii per la Scuola di Pisa».
E come andò?
«Finalmente – e paradossalmente – lì ero libero: autonomo, anche finanziariamente. Mi trovai così bene che alla fine dell’anno di leva decisi di fermarmi e l’anno dopo feci domanda per diventare incursore, l’élite dell’esercito».
Che cosa le piaceva dell’esercito?
«Ero sempre posto di fronte a sfide nuove e mi dicevano che potevo vincerle: ho capito che con l’equipaggiamento, l’addestramento e la forma mentis giusta puoi fare l’impossibile».
Che cosa fece da incursore?
«L’Italia mandò un contingente nel Corpo di pace internazionale in Libano e partii subito. Dopo il primo mese come incursore a sminare e bonificare, il generale Angioni mi chiamò al Comando di contingente e mi assegnò il ruolo di fotografo».
Fotografo?
«All’inizio io mi arrabbiai: “Scusi, sono un incursore…”. Comunque mi assegnò al cosiddetto “ufficio arabo” che seguiva le attività di pubbliche relazioni e talvolta anche di intelligence sotto copertura, un ruolo strano che mi permise di entrare in contatto sia coi livelli più alti, come il presidente della Repubblica e il ministro della Difesa, sia con pressoché tutti i vip e la stampa che passavano da Beirut».
Così ha conosciuto la Fallaci?
«Lei era venuta varie volte, l’ultima appena prima che da Roma arrivasse l’ordine di abbandonare Beirut. La città era a ferro e fuoco e lei rimase bloccata al Comando fino all’evacuazione: così la portammo con noi, sulla nave militare del ritorno. E lì, con la silhouette di Beirut sullo sfondo, mi stuzzicò: “Dimmi un po’ Nespoli, che cosa vuoi fare da grande?”».
Ha deciso lì di cambiare vita?
«Mi chiese quali fossero i miei sogni nel cassetto e saltò fuori quello “impossibile” di fare l’astronauta. Mi disse: “Se è un sogno vero, almeno ci devi provare”. E quella è stata la prima volta in cui ho creduto che fosse remotamente possibile. A 26 anni».
E come si fa l’astronauta?
«Servivano tre cose: laurea tecnica, inglese perfetto e fisico a posto. Io avevo solo il terzo. Ho lasciato l’esercito e mi sono iscritto a ingegneria aerospaziale a New York, anche grazie a Oriana che conosceva il rettore».
È vero che Angelo di Insciallah è ispirato a lei?
«La Fallaci si era innamorata del nostro contingente in Libano e l’ha usato come sfondo per il suo romanzo. Ci sono storie di tanti militari, ma li ha plasmati a modo suo. Come Angelo, che di base potrebbe coincidere con la mia descrizione, ma di fatto è il personaggio del suo romanzo. È anche vero che in quel periodo ci frequentavamo e che lavoravamo in parallelo: io per la laurea e l’inglese, lei per il libro, così ci sentivamo e ci sostenevamo a vicenda. È stata una specie di simbiosi, finita quando abbiamo terminato, in contemporanea, lei il romanzo e io l’università».
Avete avuto una storia d’amore.
«Non è né vero né falso… Il nostro era un rapporto strano, lei era una tosta, mica facile: a volte eravamo complici, a volte amici, a volte era un rapporto fra madre e figlio, altre fra padre e figlia. Spesso facevamo delle litigate spaventose. Sicuramente mi ha lasciato il segno, mi ha aiutato e spronato, però non è stata l’unica: il generale Angioni e il capitano Cantatore, mio capo a Beirut, mi hanno sostenuto e perfino Spadolini, allora ministro della Difesa, mi diede una mano con un inghippo burocratico».
E alla fine è riuscito a diventare davvero un astronauta. Com’è?
«Per la cultura generale l’astronauta è Superman, ma per quanto mi riguarda quello perfetto è una persona media, con un voto attorno al 7, però a 360 gradi: perché nello spazio devi saper fare tutto, un esperimento di botanica o di geologia o sugli animali, riparare il bagno, pilotare la navicella o il braccio meccanico. La superlatività, se esiste, è questa».
Altre caratteristiche?
«Devi anche lavorare in team e sotto pressione. Per il resto, l’astronauta non è né ricco, né famoso. E magari è pure arrabbiato perché voleva fare la passeggiata spaziale, e dopo dieci anni di addestramento alla fine non gli è toccato…».
Vuole tornare nello spazio per fare la passeggiata?
«Vorrei tornare, ma non solo per quello, soprattutto per mettere a tesoro tanti anni di preparazione. Del resto devo sempre faticare per ottenere le cose: l’età standard di reclutamento è 27-37 anni con una vita lavorativa di circa dieci anni, io ho fatto il primo volo a oltre 50 e, se tornassi ancora, ne avrei più di 60. Però ho questo senso dell’oratorio, le cose non mi vengono mai gratis, sono brianzolo».
Era brianzolo anche sulla Stazione spaziale?
«Ebbene sì. Nel mio rapporto di fine missione, dopo sei mesi sulla Iss, la Nasa ha scritto “incredibile capacità di lavorare, non si ferma mai”».
Ha mai avuto paura lassù?
«Noi facciamo anni di addestramento per abituarci alle più svariate situazioni di emergenza. E c’è un rapporto di fiducia totale verso i tecnici e il centro di controllo: sei una ruotina che è parte di un meccanismo e l’unica preoccupazione è girare come e quando devi. A volte pensavo: non importa se esplode il razzo, purché non sia per colpa mia».
Com’è stare senza gravità?
«Quando arrivi in orbita sei un terrestre, metti la gravità in ogni cosa: i primi giorni sei spaesato, non funzioni più, per fare due metri butti giù quattro cose e sbatti la testa, vai rasente alle pareti. Poi però, man mano, il tuo corpo si abitua e all’improvviso ti muovi leggero da una parte all’altra della navicella, e davvero ti senti come Superman. È molto bello».
È vero che sulla Iss tutti fanno foto all’Italia?
«Il nostro Paese si vede in modo eclatante. Per fare una foto al Centro astronauti dell’Esa di Colonia ho impiegato quattro mesi; le città italiane le individuavo facilmente grazie alle coste, l’Italia è molto visibile sia di giorno, sia di notte, perché è luminosissima, è chiara e verde, ci sono fiumi, vulcani, laghi, isole: c’è tutto».
Stare nello spazio fa pensare? Dio, la vita, l’origine dell’universo…
«Ho un approccio ingegneristico: dovrebbero mandare il Papa in orbita per rispondere a certe domande. Io ero più concentrato sugli esperimenti e le manovre del braccio meccanico o delle navicelle in avvicinamento. Di sicuro stare lassù ti dà una prospettiva diversa ma di solito non ti fa cambiare idea, anzi, rinforza quelle che hai già, anche sulla fede».
Ma la Grande Muraglia si vede? Dicono sia l’unico monumento che si scorga dalla Luna.
«Posso solo dire che da 400 chilometri, cioè da molto più vicino della Luna, non si vede neanche se piangi, né a occhio nudo né con teleobbiettivi potenti. Con questi, invece, sono riuscito a vedere e fotografare molti altri monumenti terrestri, come le Piramidi».
Dica la verità, ha mai pronunciato la mitica frase: «Houston, abbiamo un problema»?
«In effetti è la frase standard, se c’è un problema. Ma io preferivo scherzare e dire: “ Houston, we have no problem ”…».