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Oriana Fallaci, dieci anni dopo

Alessandro Gnocchi, nel libro “I nemici di Oriana” (Melville Edizioni), ricorda le preveggenti, preziose e coraggiose prese di posizione della giornalista toscana, l’acredine dei suoi avversari e le ormai numerose pubblicazioni vicine al suo pensiero

Il 15 settembre 2006 veniva a mancare Oriana Fallaci. Pertanto, dieci anni dopo, il recente libro I nemici di Oriana. La Fallaci, l’islam e il politicamente corretto (Prefazione di Vittorio Feltri, Melville Edizioni, pp. 184, € 15,50) appare anche come un omaggio alla celebre giornalista fiorentina (vedi pure il nostro Cara Oriana Fallaci… Lettera a un animo mai domo). A scriverlo Alessandro Gnocchi, 35 anni, cremonese, caporedattore della sezione Cultura e Spettacoli de il Giornale.

nemici-di-orianaRicchissimi di puntuali citazioni, i vari capitoli nei quali è suddivisa la pubblicazione espongono le idee della scrittrice (non solo dalla sua “svolta” seguita all’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001), e, soprattutto, le reazioni, positive e negative, a esse. Innanzi tutto, è innegabile il fatto (e il merito) che solo con gli articoli e i libri della giornalista «il problema del fondamentalismo islamico entri stabilmente nella discussione pubblica (meglio: popolare)». Purtroppo, «oggi la cronaca riconduce proprio alle idee della Fallaci, a prescindere da quale opinione se ne abbia». Idee che, usando le parole dell’autore del libro, si possono sinteticamente e manchevolmente sintetizzare di seguito così: «l’immigrazione è un’invasione demografica auspicata dai paesi arabi e realizzata con la fattiva collaborazione delle istituzioni di Bruxelles»; «l’integrazione è impossibile e neppure desiderata da molti immigrati che non credono nello stile di vita e nell’ordinamento laico della democrazia liberale»; «siamo nel bel mezzo di una guerra di religione».

E, ancora: «l’islam moderato non esiste», ma esistono i musulmani moderati, che però hanno scarso peso, in patria e da emigrati; «i paesi arabi si segnalano per l’intolleranza verso le donne e i fedeli di altre religioni»; «i valori della civiltà occidentale non sono derogabili in nome della tolleranza degli intolleranti» e abbiamo il dovere di difenderli; «non è accettabile che tali problemi siano occultati dalla retorica del multiculturalismo e dell’accoglienza». La Fallaci ha denunciato senza pietà «la minaccia di espansione del terrorismo»; «il fallimento dell’integrazione»; «lo scarso amore dell’Occidente per se stesso»; «la doppia morale applicata sempre a vantaggio dell’Altro»; «gli eufemismi del politicamente corretto»; «le contraddizioni del multiculturalismo»; «l’intolleranza […e] l’accusa di razzismo come randello per delegittimare l’avversario».

Qual è la risposta degli avversari ideologici della scrittrice toscana, ovvero i seguaci del pensiero unico mondialista allineato, conformista e omologante e del buonismo politicamente corretto, spesso di matrice cattocomunista? Nel migliore dei casi, afferma Gnocchi, essi badano alla forma per «evitare il confronto con la sostanza», spostando «l’attenzione dalla realtà alle parole» per offrire «l’impressione, infondata, di fare cultura o addirittura politica». È frequente pure l’accusa di incompetenza, nonostante la Fallaci avesse dedicato, rischiosamente, buona parte della propria vita a reportage da paesi di tutto il mondo, tra i quali quelli musulmani, evidenziando la terrificante condizione della donna in tempi non sospetti, ad esempio col libro del 1961 Il sesso inutile. Il più delle volte, però, la reazione si sostanzia di soli insulti e luoghi comuni ideologici, magari senza neppure aver letto una riga della scrittrice.

Così si è giunti ad affermare che ella “sragionasse” a causa del cancro ai polmoni da cui era affetta. La pubblicazione dell’articolo della Fallaci La Rabbia e l’Orgoglio sul Corriere della sera del 29 settembre 2011 scatena Sandro Curzi, direttore di Liberazione, che lo giudica un «inquietante pamphlet bellicista». Eugenio Scalfari su la Repubblica parla di «roba da bar del Commercio o dello Sport che dir si voglia». Ma è sempre sul Corriere della sera che ci si scatena. Gian Antonio Stella la butta, ovviamente, su quando i migranti eravamo noi. Si distinguono per la violenza del loro linciaggio gli “autorevoli” Dacia Maraini e Tiziano Terzani.

Entrambi si producono in tanti e tali luoghi comuni e banalità da risultare interessanti e originali come dischi rotti che ripetono all’infinito la stessa musica. La prima blatera: occorre «distinguere fra cultura islamica e terrorismo»; «ogni confronto fra culture è insensato»; le libertà possono permettersele solo i paesi ricchi; «saper accogliere il diverso è una conquista». Il secondo benpensante ritiene il testo della Fallaci «una lezione d’intolleranza», quindi si perde in un terzomondismo da operetta: occorre capire i «kamikaze»; le colpe sono degli Stati Uniti, del petrolio, della «questione israeliano-palestinese»; il capitalista imperialista è uguale al terrorista. Insomma, già troviamo nella Maraini e in Terzani ciò che sarà il ritornello fino a oggi: assoluto disinteresse per la cultura islamica; l’Occidente (ovvero Stati Uniti) è cattivo, anzi, è il male assoluto; relativismo-giustificazionismo: chi può giudicare i poveri stragisti?; la religione e la cultura islamica non c’entrano nulla.

I due usano argomentazioni talmente stantie che qualche giorno dopo verranno rintuzzate, sempre sul quotidiano milanese, dal Giovanni Sartori e da Giovanni Zincone. Il primo scrive che «per la Maraini e Terzani è quasi come se non fosse successo niente di nuovo». La prima ripropone «soltanto gli stanchi luoghi comuni del terzomondismo politicamente corretto» e il secondo non capisce che l’imperialismo statunitense c’entra poco. Entrambi, poi, secondo Sartori, confondono il concetto di cultura con quello di civiltà. Zincone scrive che «molti intellettuali del nostro tempo sono abituati a guardare il mondo dall’alto di freschi palmizi, distribuendo imparzialmente colpe e ragioni, come se nulla li riguardasse».

Ma il rancore verso la Fallaci non si arresterà mai, giungendo alla “perla di finezza intellettuale” di Pietro Citati (anch’esso un fiorentino) su la Repubblica del 2 settembre 2005, scritta subito dopo l’incontro, in forma privata, della donna con Benedetto XVI, poco più di un anno prima della morte della scrittrice. Già il titolo, I troppi errori della nuova Giovanna d’Arco, è tutto un programma. Il testo, però, è pure peggio: «provo una profonda avversione per Oriana Fallaci: questa donna esibizionista […]. Qualsiasi cosa scriva, parla soltanto del suo grandioso ego. È una giornalista ignorantissima e bugiardissima. […] Confutare Oriana Fallaci è una cosa puerile: può farla qualsiasi studente di liceo». Ma lui non lo fa. Alla faccia della dialettica e del rispetto per il “diverso”!

guzznti-orianaNon bastassero gli “intellettuali di professione”, l’odio verso la Fallaci contagia Jovanotti (canzone Salvami), Sabina Guzzanti, che scherza persino sul cancro che tormenta la giornalista, Franca Rame e Dario Fo, e mille altri. Non mancano i processi in Francia, in Italia, in Svizzera. Per quale accusa? Per razzismo (!), come se essere musulmani significasse appartenere a una razza, o per vilipendio della religione islamica. Dal 1998, infatti, è stato inventato lo psicoreato di “islamofobia”: vale a dire che in Occidente la libertà di critica si arresta di fronte a tutto ciò che è musulmano. Il che sta a indicare, come scrive Gnocchi, la «sostanziale retromarcia dell’Europa sul tema della libertà d’opinione, fino allora ritenuta un pilastro della nostra civiltà». La Fallaci, invece, morirà prima di potersi presentare davanti ai giudici di Bergamo.

Per fortuna, sono sempre più numerose le voci che si uniscono a quelle della Fallaci, ed è un merito di Gnocchi, nel passare in loro rassegna, aver fornito una sorta di bibliografia di autodifesa contro il pensiero conformista. Ci limitiamo a esporre le posizione solo di alcune. Molte di tali voci provengono dalla massacrata Francia, faro delle idee illuministe di libertà e democrazia. Da quella del narratore Michel Houllebecq, col romanzo Sottomissione (2015), a quella del sociologo Pierre-André Taguieff, che in Il diavolo in politica spiega come la sinistra non capisca più proprio gli operai, i disoccupati, i precari e i pensionati, che costituivano la sua base elettorale. Nel libro La grande sostituzione (2012) lo scrittore Renaud Camus denuncia «la perdita d’identità (nazionale, culturale, religiosa) indotta anche dallo squilibrio demografico dovuto all’immigrazione» e la «deculturazione», ovvero il crollo dell’istruzione pubblica. Ne Il suicidio francese – che presto recensiremo – il giornalista Éric Zemmour individua nell’«ideologia della globalizzazione multiculturalista» ciò che conduce alla perdita delle proprie radici e all’odio per ciò che un tempo si amava (la storia nazionale, il territorio, il popolo).

Anche nel Regno Unito si accende il dibattito. Un giornalista come Christopher Caldwell, ne L’ultima rivoluzione dell’Europa, «nega la convenienza economica dell’immigrazione di massa […] destinata a far saltare in aria lo Stato sociale». L’accademico di Oxford Paul Collier (Exodus) ritiene che i rapporti demografici siano sempre decisivi e che «più grande è una comunità di immigrati, meno tende a integrarsi». Ne L’Occidente e gli altri il filosofo Roger Scruton afferma che il politically correct «incoraggia la denigrazione di ciò che sentiamo essere particolarmente nostro» e nasconde il desiderio di «ripudiare l’eredità culturale che ci distingue dagli altri».

In Italia le prese di posizione più ferme sono forse state quelle del già citato Sartori e di Ida Magli (delle ultime pubblicazioni dell’antropologa parleremo ampiamente nel febbraio del 2017, per celebrare il primo anniversario della sua recente scomparsa). Già nel 2000 il politologo, ancora un fiorentino, in Pluralismo, multiculturalismo e estranei, facendo pure riferimento al pensiero di Karl Popper, si chiedeva: «Fino a che punto la società può accogliere senza disintegrarsi estranei che la rifiutano?». L’attuale multiculturalismo «è anti-pluralistico» perché «rivendica la secessione culturale» e «si risolve in una tribalizzazione della cultura». Dopo le stragi islamiche di Parigi del 13 novembre 2015, il filosofo francese Alain Filkienkraut, riguardo i sensi di colpa che sommergono l’Occidente, ha scritto che «non abbiamo generato noi questo mostro con le nostre politiche neocoloniali […]. Non stiamo pagando per i nostri crimini». Quando, forse, lo capiremo, sarà troppo tardi. O lo è già adesso.

Rino Tripodi

(LucidaMente, anno XI, n. 129, settembre 2016)

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