[…] La parola ‘hijab’, che nel Corano significa letteralmente “sottrarre alla vista, nascondere”, ha assunto negli anni il significato di ‘velo’ per la donna musulmana, anche se nel testo sacro ci sono altri due termini (khimār e jilbāb) che lo definiscono in modo più appropriato, specificando come esso debba coprire il capo del credente e anche il volto. Lo scorso 4 marzo una commissione della Fifa, anche grazie all’appello presentato dall’Onu, ha deciso che le ragazze velate potrebbero essere autorizzate a giocare se indosseranno degli hijab in velcro aderenti e fatti apposta per lo sport (per 4 mesi saranno sottoposti ai test per la messa a punto). Altri sport come il taekwondo e il rugby consentono già da tempo l’utilizzo dell’hijab. La stilista olandese Cindy Van den Bremen, che ha creato uno dei modelli di hijab sportivi in esame, ha sostenuto di non vedere la differenza tra la possibilità di afferrare un’atleta per la coda di cavallo o per l’hijab, in termini di pericolo sul campo di gioco.
Le associazioni femministe plaudono alla decisione della Fifa, contro quello che era un “segnale dell’Islamofobia crescente nel mondo, capace di colpire le donne musulmane”. La rivista ‘Foreign Policy’ sostiene come nel “gioco del calcio le atlete musulmane siano rimaste intrappolate nei crescenti sentimenti anti-musulmani e nelle più ampie guerre culturali combattute principalmente in Nord America e in Europa”. Voci fuori dal coro quelle del movimento ‘Ni Poutes ni Soumises’ (né puttane né sottomesse), che hanno criticato la Fifa definendo il provvedimento una “totale regressione, in quanto il velo è un simbolo di dominazione maschile”. […]
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