di Ferruccio DE BORTOLI – tratto da: Corriere della Sera, 8.9.2009
Devo essere sincero. Non so se Oriana avrebbe gradito questa mia prefazione. Il nostro è stato un rapporto intenso, tempestoso. Interrotto più volte. E mai ripreso prima della sua morte, purtroppo. Avrei voluto esserle vicino. Non è stato possibile. La colpa credo sia mia. E dunque, queste poche e insignificanti righe cominciano con una confessione maturata in otto lunghi anni. Oriana andava difesa di più. Il suo direttore, si fa per dire, il sottoscritto, ebbe il piccolo merito di convincerla a scrivere, dopo l’Undici Settembre e un silenzio decennale, ma il grande torto di seguire poi le maledette regole del politicamente corretto. «L’Italia si divide nel nome di Oriana» titolammo il giorno dopo la pubblicazione del suo articolo. Un titolo corretto, ma freddo, distaccato.
Con “La Rabbia e l’Orgoglio”, l’Italia venne investita da un ciclone di sentimenti. Un pugno nello stomaco alle sue viltà. Si divise, certo. Ma fu abbracciata all’improvviso da uno straordinario atto d’amore che in qualche modo la rese più unita, più consapevole della propria identità. Oriana colpì al cuore, facendo pensare, scuotendolo, anche chi non condivideva nulla del suo pensiero. Persino chi lo trovava, sbagliando, un po’ razzista. Scrisse bene Giuliano Zincone, il 17 ottobre del 2001, sul «Corriere»: «Oriana ha sbriciolato il pigolio del buonsenso, le cautele ecumeniche, afferrando il nuovo spirito del tempo. Non conta la correttezza dei suoi argomenti, ma la forza con la quale mi costringe a riflettere». Uno scrittore, un grande scrittore, crea emozioni, scopre gli angoli più remoti della nostra coscienza, muove le passioni. Oriana in quel settembre di sangue, con l’America ferita dal terrorismo e il mondo impaurito, ci prese a schiaffi, ci spinse contro un muro, insultandoci, ma risvegliò il nostro orgoglio sopito con l’affetto profondo che solo una madre, lei che non lo era, può avere nei confronti dei suoi figli.
Ecco, Oriana è stata la nostra Madre Coraggio. «I profeti — ha scritto Fiamma Nirenstein in una bella recensione al libro — vedono tutto ciò che è proibito vedere e il dono del cielo che ricevono è poterlo ammantare di poesia. Così è il testo di Oriana Fallaci: veritiero, poetico e disperato». «Un calcio violentissimo sferrato contro il castello delle nostre ipocrisie» commentò Angelo Panebianco. Oriana, prima di pubblicare “La Rabbia e l’Orgoglio”, l’aveva definito, al telefono con Howard B. Gotlieb, il gestore del suo fondo di scritti all’Università di Boston, un sermone. «Call it a sermon» gli aveva urlato. Quell’Undici Settembre non fui io a chiamare lei. Non lo feci per una sorta di timidezza. Lei detestava sentirsi chiedere un articolo. «Voi direttori, siete tutti uguali, alla fine volete solo quello, vi conosco…». Ci avevo provato tante volte. Senza il minimo risultato. La misura dell’articolo era qualcosa che aveva finito per sembrarle persino insultante. Chiamò lei. E parlammo a lungo. Descriveva l’orrore di quei corpi che cadevano dalle torri, la sensazione spettrale di una New York svuotata e percorsa solo dai mezzi di soccorso. Mi colpì perché parlava dell’odore che si respirava anche lì da lei, sulla 61esima, fra la Seconda e la Terza. Un odore di morte. «Potremmo fare un’intervista, Oriana, che ne dici?». Si fece convincere. «Ma la devi fare tu, d’accordo?». «Va bene». «Prendi il primo aereo e vieni». Attesi la riapertura dei collegamenti fra l’Europa e gli Stati Uniti e salii sul primo aereo fra Milano e New York. Era il 15 settembre. I passeggeri sembravano muti. Solo sguardi straniti, tentativi goffi di apparire normali. Un viaggio surreale. Arrivato a New York, feci un salto in albergo. Il Waldorf Astoria era deserto; il personale incollato ai televisori continuava a guardare le immagini della tragedia; gli aerei che entravano nei grattacieli, come lame nella carne viva di una città, di un popolo. Poche auto. Lunghe file di taxi vuoti. Il tempo si era fermato.
Quando Oriana aprì la porta del suo appartamento, al numero 222 della 61esima, ricominciai a respirare, nonostante l’ambiente fosse chiuso, l’aria viziata, le finestre sempre serrate. Cataste di libri, un disordine insopportabile ma affascinante. Lei cordiale e persino affettuosa. La sigaretta sempre accesa. L’intervista? Non cominciò neppure perché era già stata fatta. L’aveva già scritta lei, domande comprese. E cominciò subito a leggerla davanti a me. Le piaceva farlo, le piaceva ascoltarsi. E subito dopo apparire insoddisfatta di quello che aveva scritto. Una specie di gioco, con un pizzico di vanità. Come se si guardasse allo specchio. La voce dava corpo ai sentimenti. Era tutt’uno con le parole. Come nella “Lettera a un bambino mai nato”, che forse le era piaciuto più leggere, e incidere, che scrivere. «Benissimo, Oriana, ma sei tu che intervisti te stessa (poi l’avrebbe fatto). Io non c’entro nulla, ogni mia parola rovinerebbe tutto. Devi fare una cosa tua, con la tua firma». «Ci risiamo, tu vuoi l’articolo, lo so, non te ne frega niente di tutto il resto». L’umore era cambiato di colpo, la voce ancora più roca e tagliente. Si alzò dal divano e se ne andò in cucina. Ricordo che restò in silenzio per qualche minuto. Interminabile. Pensai: adesso mi caccia via. Si era fatto tardi. «Mangiamo qualcosa?» disse lei. «Possiamo andare da qualche parte». «No, ho delle aragoste in frigorifero, mancherebbe lo champagne».
Uscii, in una New York ancora più deserta e lunare, e andai a comprare una bottiglia di Cristal, il suo champagne preferito. Mi vergognavo un po’. Lo sguardo del rivenditore era di condanna. Che cosa avrà da festeggiare questo qui? Boh. Non riflettemmo un attimo sull’inopportunità di un menù, diciamo così, spensierato. Si cominciò a parlare d’altro. Della sua vita, della mia. Di come era uscito il giornale del dodici settembre, del mio editoriale che le era piaciuto solo per il titolo, diventato poi famoso («Siamo tutti americani»), ma non per il contenuto. Lei avrebbe fatto ben altro. «Si vede che non hai le palle, non vi sporcate mai le mani, state troppo in ufficio…». Dall’esterno, a un certo punto, cominciarono ad arrivare delle voci concitate. Oriana si alzò di scatto. «Sono i soliti bastardi…». Ce l’aveva con gli avventori di un locale notturno vicino. Ma soprattutto con gli autisti che aspettavano in strada. Molti dei quali di origine araba. Rovesciò un po’ di epiteti, ma le impedii di andare alla finestra. «Oriana… e poi dici che sei costretta a barricarti in casa…». Si fece tardi, molto tardi. Io ero distrutto. Lei sprizzava energia, la voglia repressa di uscire di casa, di andare a Ground Zero. Di tornare in prima linea, come quando era più giovane.
Ma non si poteva, ed era del tutto inutile avvicinarsi. «Ci vediamo, domani?». «Sì, domani, ma pensaci, inutile fare un’intervista. Scrivi tutto tu. Io farò un box a parte, in cui spiegherò come si è arrivati alla tua decisione di rompere il silenzio. Non vuoi un articolo? Scrivi una lettera. Scrivila a me, ti va?». «Ci penso stanotte, a domani, ora sono un po’ stanca». Non lo sembrava affatto, nonostante la tosse, i segni di una malattia con la quale lottava, ignorandola, in ogni minuto di un’esistenza solitaria. Oriana aveva sempre un fronte sul quale stare, questo era il più pericoloso e maligno. La mattina dopo la raggiunsi un po’ sul tardi. Le portai dei fiori. Che lei prese, aprendomi la porta, con distrazione e senso di fastidio. Bevemmo un caffè e parlammo di tante cose. Io non avevo il coraggio di tornare sull’argomento della sera prima, l’articolo o la lettera. E, dunque, aspettai che lo facesse lei. Passò del tempo. Lunghissimo. Poi Oriana mi chiese se avevo pensato a come presentare la sua cosa. La cosa, generica. «In prima pagina, di spalla, e poi dentro, con l’impaginazione e le foto che decidi tu». Lei non rispose e andò subito a rovistare fra tante sue immagini. Quella che le piaceva di più la ritraeva in macchina, la portiera aperta, le torri gemelle riflesse sul finestrino, un grande cappello e occhiali scuri. «Questa può andare». «E il box l’hai scritto?».
Aprii il computer e le mostrai quello che avevo messo giù in albergo. Con la tentazione di leggerlo ad alta voce. Come faceva lei. Ma rinunciai subito. E lei lo lesse con lo sguardo corrucciato, in silenzio. Come un esame. Fallito. Non le andava che facessi riferimento a “Penelope alla guerra” o a “Insciallah”. Le dava fastidio leggere un testo sul computer. «Insopportabile e anche scomodo». «Guarda, Oriana, lasciamo perdere. Qualsiasi testo accanto al tuo apparirebbe inutile e stonato». «Beh, se proprio insisti…». Oriana sapeva distillare il sapore delle proprie vittorie. Anche le più piccole. «Ma in prima come lo metti?» «Faremo un palchettone, a nove colonne (c’erano ancora), poi girerai all’interno in un inserto speciale. Sarà come un libro che si pubblica la prima volta su un quotidiano, va bene?». Lei fece sì con la testa, preoccupata di non sembrare mai soddisfatta. «E il titolo?». Qui la discussione si fece lunga. Si gettarono le parole sul tavolo, come in un improvvisato Shanghai. E lei le scartò una a una. Alla fine io insistetti per «Il massacro e l’orgoglio». E lei sembrava convincersene, ma forse più per stanchezza. Poi accendendosi una delle tante sigarette di quella mattina, si alzò di scatto dalla poltrona e disse: «La rabbia…». Tutta quella che aveva dentro. La Rabbia e l’Orgoglio.
P.S. A Oriana non erano piaciute le risposte alla sua lettera da New York di Dacia Maraini e, soprattutto, di Tiziano Terzani. Tornassi indietro li ripubblicherei allo stesso modo, sfidando la sua ira. Erano due articoli contrari, ma scritti con impegno e passione. Gli interventi di due fiorentini come lei, ai quali replicò sul «Corriere» un altro fiorentino, Giovanni Sartori. Dando ragione a Oriana. Un quinto fiorentino, che non l’amava certo, era morto da poche settimane. Indro Montanelli le avrebbe reso omaggio. Da par suo. Ma ciò avrebbe inevitabilmente suscitato i sospetti di Oriana, diffidente verso gli elogi imprevisti, gli abbracci improvvisi. Lei, combattente irriducibile dal suo eremo americano, amava andare controcorrente. Ma da sola.