di Ferruccio de Bortoli – – – CorriereFiorentino
Dovremmo chiedere tutti scusa ad Oriana Fallaci. Il suo Paese, la sua città, il suo giornale. Certo, se lei fosse ancora viva ci riempirebbe di insulti. Sgradevoli. Perché Oriana sapeva essere molto, ma molto sgradevole. E forse qualcuno di noi si offenderebbe ancora dicendo che i toni sono eccessivi, che così si semina odio, che non si favorisce il dialogo, che Oriana si è rimessa l’elmetto. Sono tutti argomenti che conosciamo per averli letti — anche all’epoca con stupore e disapprovazione — in inutili raccolte di firme contro di lei.
In documenti sottoscritti anche da persone che stimiamo. «Io voglio vivere e morire in piedi» disse Oriana in quegli ultimi giorni nei quali, sconfitta dal male, il cancro che lei chiamava l’alieno, volle abbracciare la sua città e il suo Paese, senza peraltro esserne ricambiata come lei avrebbe desiderato in cuor suo. Ne La Rabbia e l’Orgoglio che, come forse ricorderete, è una lettera scritta a chi vi parla e apparsa sul Corriere il 29 settembre 2001, uno dei passaggi più incisivi, più vibranti, è quello dedicato al senso della patria, al rispetto della bandiera. Oriana elogia la reazione americana, si commuove davanti al patriottismo degli operai, molti dei quali immigrati. Al grido united we stand , siamo uniti, forti e in piedi. E la bandiera, scriveva Oriana, viene sventolata da un Paese intero. Non come in Italia.
Oriana soffriva nel vedere le smunte e sudice bandiere che vengono esposte nei nostri palazzi pubblici, nelle scuole. Tricolori che sembrano abbandonati al proprio destino e non danno l’immagine di un Paese fiero e orgoglioso. «Io sono italiana — scriveva Oriana — e sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non l’ho mai chiesta». Ricordava Oriana che ogni volta che tornava a New York e porgeva al doganiere il passaporto con il certificato di residenza, si sentiva rispondere: welcome home. Benvenuta a casa. «Mi sembra — scriveva — un gesto così generoso, così affettuoso». Noi non lo facciamo per i cittadini, figuratevi per i residenti. Ma sarebbe bello se il governo italiano — e devo dire che Matteo Renzi in questa città si distinse dalla muta dei detrattori — facesse un omaggio postumo alla Fallaci, ordinando alla polizia di frontiera di dire «bentornati a casa» a tutti gli italiani, ma anche a coloro che italiani non sono e vivono e lavorano nel nostro Paese. Sarebbe un modo per non disperdere una delle tante eredità di Oriana: l’amore per la propria città e il proprio Paese. Un Paese generoso di riconoscimenti a dittatori e affamatori (Firenze non si è risparmiata in passato nel concedere premi inopportuni), ma sospettoso e ingiusto nei confronti di una grande giornalista e scrittrice, anzi scrittore come diceva lei che la parità di genere se l’era conquistata sul campo.
Molti degli scritti di Oriana – e mi riferisco a La Forza della Ragione e ad altri articoli pubblicati sul Corriere – hanno suscitato reazioni indignate, proteste irritate, un ostracismo ottuso. Proviamo ad immaginare che cosa sarebbe accaduto se fossero usciti dopo le stragi di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Bruxelles, di Dacca. Quali sarebbero state le reazioni? Dubito che la civile Francia l’avrebbe processata per razzismo e islamofobia come successe dopo la pubblicazione della traduzione francese de La Rabbia e l’Orgoglio. Sono convinto che molti di quelli che ne contrastarono la foga polemica, firmando inutili appelli, arrampicandosi su fragili distinguo, non avrebbero oggi il coraggio di scatenare un’ondata di ostracismo. E non credo che un artista, come accadde, si sarebbe spinto a raffigurarla in un quadro con la testa mozzata. Riletta oggi La Rabbia e l’Orgoglio è un testo profetico, illuminato. Ancora più bello ed emozionante, nonostante gli errori che non mancano.
Allora l’attenzione, com’era naturale, si pose più sugli eccessi verbali, sui toni dell’invettiva, sulla verve polemica, meno sulla sostanza delle verità che il testo racchiude. Oriana parlava di una crociata alla rovescia in atto. Lo stato islamico non esisteva ancora. Oggi faticheremmo a non riconoscere nei proclami dell’Isis gli ingredienti di un movimento di odio e violenza che lei lucidamente intravvide. Parlò di una guerra in atto, come negli ultimi mesi ha più volte detto di essere costretto a combatterla il capo dello Stato francese Hollande. «Non capite o non volete capire — scriveva — che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà».
Ne La Rabbia e l’Orgoglio c’è un altro passaggio profetico. Quello in cui la Fallaci racconta di quando assistette in Bangladesh, a Dacca, all’uccisione di dodici ragazzi. Impuri per la legge islamica. Giustiziati a colpi di baionette nel torace con ventimila fedeli che applaudivano. Rileggerlo adesso, dopo quello che è accaduto a noi connazionali proprio a Dacca, fa venire altri brividi. Oriana prese di petto, con la sua spesso intollerabile verve polemica, al limite dell’offesa, quelle comunità che gioivano, con festeggiamenti in piazza, davanti alla tragedia delle due torri. Erano i giorni dell’emozione, della visione terrificante del cratere di ground zero che continuava a eruttare morti e dolore. Ma in quello scritto, il tema dei troppi predicatori di violenza nelle moschee occidentali, di una certa ambiguità delle comunità musulmane integrate dalle quali ci aspettiamo condanne più nette del terrorismo, c’era tutto. Un ragionamento limpido. Essenziale. Ora vi chiedo: era più grave l’intolleranza delle parole di Oriana o la colpevole cecità dei suoi critici?
Michel Houellebecq, che ha scritto Soumision (Sottomissione) raccontando il pericolo — continuiamo a credere immaginario — di una Francia laica che si arrende alla islamizzazione, non è stato perseguitato e processato come Oriana, ma lodato, discusso e protetto. Sembra passato un secolo, ma sono trascorsi soltanto quindici anni. Non oso pensare che cosa avrebbe detto Oriana del burkini, lei che si tolse il chador davanti a Khomeini. E si sentì dire, all’ambasciata iraniana di Roma, che lo smalto rosso che aveva sulle unghie era un segno di immoralità. Non c’era nulla di razzista in quelle righe, c’era invece un formidabile, possente per profondità e forza evocativa, pugno sferrato al ventre molle di un Occidente piegato su se stesso e incapace di difendere i suoi valori di civiltà.
Una volta chiesi a Oriana, con la quale come è noto ebbi anche rapporti burrascosi specie dopo la mia decisione di pubblicare le risposte di Dacia Maraini e Tiziano Terzani, come avrebbe definito il suo scritto. Lei mi disse che al conservatore americano delle sue opere (Howard Gottlieb della Boston University), che gli aveva rivolto la stessa domanda, aveva risposto: «Call it a sermon». Una predica, una predica utile. Rivolta a noi occidentali, agli italiani, ai fiorentini. Un grido di dolore. Un incitamento — lei avrebbe aggiunto la minaccia a prenderci a pedate nel sedere — a credere e difendere di più i nostri valori, che sono anche la libertà e la tolleranza per le altre religioni e per le altre culture. Ripeto, non vi era nulla di razzista, nessuna istigazione alla violenza, nessun seme della discordia gettato con irresponsabile leggerezza nell’arena politica, nessun fiammifero nel pagliaio dei pregiudizi. Ma uno straordinario atto d’amore verso il proprio Paese, la propria terra. Welcome home. Bentornata Oriana.
*Discorso pronunciato ieri a Firenze da Ferruccio de Bortoli, direttore del «Corriere della Sera» al tempo de «La Rabbia e l’Orgoglio«, in occasione della titolazione del piazzale Oriana Fallaci.