Lo scoop è riportato da Repubblica con un titolo inequivocabile :“Il businness dei Rosari”
Questo il sottotitolo: «Da Skutari, Albania, al Vaticano. Dal Vaticano all’entroterra di Rimini. A seguire la filiera dell’oggetto-simbolo della devozione cristiana si trovano, in tempi di globalizzazione e delocalizzazione, sorprese amare. Come, ad esempio, che donne albanesi imprigionate in casa dal codice Kanun guadagnano sette centesimi per assemblare una corona che nelle botteghe romane viene rivenduta a venti euro».
Come dire, il rosario non è etico. Per costruirlo viene sfruttata la manodopera a bassissimo costo di lavoratrici straniere che vivono in condizioni di povertà, e il Vaticano è in qualche modo complice di tutto questo.
Il reportage è composto da quattro articoli che trattano il tema della produzione dei rosari dalla loro realizzazione a mano fino alla vendita al dettaglio nella capitale. Tutti i pezzi sono a firma di Andrea Milluzzi, trentenne, giornalista di Liberazione, collaboratore della rivista “Gli altri” , fondatore di www.reportageitalia.it e curatore dell’inchiesta in questione. […]
Non sarà mica questa parentesi quella che fa di questo articolo uno scoop? Non sarà che a tirare in ballo il Vaticano non si sbaglia mai?
E infatti il quarto e ultimo articolo della serie comincia così: «Seguendo la traccia dei rosari fabbricati a Skutari si arriva al Vaticano», non si capisce esattamente quale traccia, però Milluzzi si ferma ad una bancarella a prendere informazioni sul costo di una corona. Si legge nell’articolo: «”Per te che sei italiano facciamo quindici euro, se fossi americano sarebbero venti”. Offerta rifiutata, ma è interessante sapere come funziona questo mercato: “Noi mettiamo le nostre bancarelle grazie a una licenza che paghiamo regolarmente. I rosari li prendiamo dai grossisti che ci riforniscono da varie parti di Italia: Milano, Roma, l’Emilia. Ordiniamo uno stock e poi li mettiamo in mostra”. Un commerciante non si va a interessare della provenienza della mercanzia, ma che ci sia la corsa al minor costo lo sanno tutti: “Sì, i prezzi si sono abbassati perché probabilmente i produttori hanno cercato manodopera all’estero. Ma per forza, da quando anche in questo settore sono entrati i cinesi, che vendono paccottiglia a prezzo bassissimo, ti devi inventare qualcosa”».
Affermazioni molto più che discutibili nella parte in cui si palesa il disinteresse, o la non conoscenza delle condizioni di chi produce l’oggetto in questione, ma certamente applicabili a gran parte della merce che ogni giorno troviamo nei negozi di tutta Italia: dall’abbigliamento ai giocattoli made in China, ai collant made in Taiwan, ai palloni realizzati in Pakistan, alla sabbiatura dei jeans in Turchia e quanto ancora. Ma l’inchiesta di Repubblica, guarda un po’, ha per oggetto i rosari. E non quelli che si vendono ad Assisi, Loreto, Fatima, Lourdes, Pompei o in tutti i santuari in Italia e nel mondo, ma di quelli che si comprano, di nuovo guarda un po’, Roma e in particolare, chi l’avrebbe detto, presso i tre punti vendita che fanno direttamente capo al Vaticano: le Grotte, la Cupola e i Musei Vaticani. […]
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