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Quei padri-padrone che l’Occidente non può tollerare

Maria Luisa Agnese

Due buone notizie: non solo Almas, la diciassettenne pachistana rapita dal padre perché troppo attirata dalla vita occidentale, è salva, ma sfuggirà a un matrimonio combinato con qualche sconosciuto della sua stessa etnia, contro la sua volontà. Proprio questo meditava il padre per toglierle dalla testa tutte le fisime di un mondo che a lui fa paura, lo si è scoperto quando Almas è stata ritrovata dai carabinieri sulla via tra Fano e Marotta, nelle Marche dove la famiglia islamica abitava da 10 anni.

Ma dietro il sollievo per la sorte di Almas (per fortuna migliore di quella capitata a Hina, morta per la violenza di un altro padre-padrone) riaffiora nelle nostre cronache un fantasma che si pensava superato per sempre, il matrimonio imposto dai genitori, echi di un’Italia lontana, anche se non troppo. Un modello culturale arcaico, risbattuto in faccia all’Occidente dalle nuove etnie pachistane, indiane, egiziane, marocchine che ripopolano i nostri Paesi; e l’Europa ormai laica e illuminista è costretta, per quanto di malavoglia, a confrontarsi di nuovo.

Non facile avere dati su un fenomeno ultrasommerso, che in genere si consuma nel chiuso delle nuove famiglie che uccidono, ma secondo il Centro internazionale di ricerca sulle donne (Icrw) oltre 51 milioni di minorenni erano state costrette a sposarsi nel mondo contro la loro volontà nel 2003, cifra che è destinata a salire a 100 milioni nel giro di dieci anni. Vittime anche da esportazione ormai, visto che in Gran Bretagna sono più di 17 mila le donne che subiscono violenze per una questione d’onore (dati dell’Association of Chief Police Officiers).

Padri, e persino madri che non reggono l’impatto con i codici di un’altra civiltà, che sentono forte il disagio verso quelle figlie che sognano l’indipendenza, e che non riescono a sopportare il giudizio della comunità, per i quali il rispetto del codice tradizionale e la paura per quel che pensa il vicino valgono molto di più della felicità, se non della vita, delle figlie. E così preferiscono buttarle giovanissime nelle braccia di un nuovo padrone, il marito, per piegarle, scaricarsi della responsabilità e liberarsi dalla fatica del confronto e del dialogo.

Il giudizio dell’ambiente condiziona, si sa, e anche a noi ha contato parecchio fino all’altro ieri: ne La prima cosa bella, film non consolatorio di Paolo Virzì, si racconta tra l’altro di come nell’Italia degli anni Settanta un marito innamorato della moglie, forse troppo bella e libera per lui, sacrifichi per paura la sua piccola felicità familiare sull’altare delle convenzioni e dei pregiudizi di una città di provincia.

Che fare oggi di fronte al ritorno di questi fantasmi, re-importati da culture chiuse e antagoniste? Dove porre il confine del dialogo e del bisogno di integrazione fra mondi diversi? Arretrare non si può, neppure in nome di quella tolleranza sulla quale si fonda la storia della civiltà occidentale e che viene messa in crisi proprio in nome del suo principio cardine: tollerare (Popper docet). Meglio quindi che le nostre comunità, i nostri Stati pretendano, senza nessun astio ma con fermezza, che gli individui che vivono e lavorano sul loro suolo rispettino le leggi e i diritti dei cittadini, a cominciare da quelli dei loro figli. E difendere il diritto all’indipendenza delle nuove generazioni straniere, magari con il sostegno della scuola. In fin dei conti, anche la giovane Almas «troppo occidentalizzata» solo questo chiedeva, ed era felice più a scuola che a casa sua.

20 gennaio 2010  –  www.corriere.it

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